Il bacio d’addio dei Kiss all'Ippodromo di San Siro

L’ultimo grande tour dei vampiri del rock

Dopo una straordinaria carriera i Kiss arrivano all’Ippodromo Snai di San Siro

Dopo una straordinaria carriera i Kiss arrivano all’Ippodromo Snai di San Siro

Milano,30 giugno 2019 – Il bacio d’addio. È il più grande tour dei loro quarantasei anni di storia, anzi «la definitiva celebrazione per i nostri fan e l’ultima opportunità di vederci per quelli che non ci conoscono», come spiegano i Kiss parlando di quell’End of the Road World Tour che li riporta martedì prossimo a Milano, sul palco dell’Ippodromo Snai.

Un tour di congedo, quello del più parruccato quartetto dell’heavy, partito il 31 gennaio scorso dalla Rodgers Arena di Vancouver per tenerlo sulla strada tre anni, con un ruolino di marcia infernale che prevede 112 repliche solo in questo 2019. Per Gene Simmons, Paul Stanley, Tommy Thayer ed Eric Singer, un’agenda-concerti massacrante, simile a quello di un altro Stachanov d’alta classifica intenzionato a dimettersi da popstar quale Elton John.

Come IL Rocketman, pure i Kiss hanno una certa pratica coi ripensamenti, se è vero che il loro tour d’addio l’hanno messo in pista nel 2000. È stato durante l’ultimo giro di concerti, quel Kissworld 2017-2018 transitato pure a Torino e Bologna, che Stanley e compagni hanno però sentito la necessità di mettere un punto definitivo sulla loro storia. «Ci siamo resi conto che tutto ha un termine, che tutto finisce in un modo o nell’altro», assicura il chitarrista mascarato, al secolo Stanley Bert Eisen, 67 anni. «Ma, al contrario di tante altre band che s’imbarcano nel loro tour finale guardandosi in cagnesco perché si odiano, noi ci stiamo congedando dal pubblico divertendoci come forse non era mai capitato prima. Fosse per me andrei avanti fino a novant’anni, ma con addosso jeans e maglietta, non con i 40 chili di attrezzatura che ciascuno di noi si porta in scena». Stanley non nasconde una certa allergia verso il termine «ex Kiss». «Ho scritto “Firehouse” quando ero al liceo, quindi tutta la mia vita è stata nel segno dei Kiss. E lo rimarrò anche quando non ce ne andremo più a suonare ai quattro angoli del pianeta. Potremo, infatti, rinunciare anche al make-up e ai costumi, ma il cuore no. Quello continuerà a battere».

Da decenni il quartetto non è più lo stesso che sorprese il mondo nel ’75 con l’album dal vivo “Alive”. Salvo il ritorno di fiamma del ’96, culminato in un clamoroso tour mondiale, infatti, il batterista Peter Criss e il chitarrista Ace Frehley gravitano su altre latitudini rispetto a quelle in cui orbita l’esercito del bacio e di altri ex membri si sono perse le tracce lasciando la coppia Simmons-Stanley unica titolare originale del munificissimo marchio. Gene lo scorso gennaio aveva vagheggiato la possibilità di una reunion in qualche data coi vecchi compagni, salvo poi affrettarsi a ribadire che il passato non torna. «Tra i tanti mestieri che ho fatto prima di diventare famoso c’è stato pure quello di tassista a Manhattan», ricorda Stanley. «Una sera portai delle persone al Madison Square Garden a vedere Elvis Presley e davanti all’ingresso pensai che prima o poi la gente sarebbe venuta lì a vedere pur me. Qualcuno deve avermi ascoltato». Cos’altro chiedere, d’altronde, ad una band abituata ad andare in scena gridando «you wanted the best, you’ve got the best!», volete il meglio, avrete il meglio? «La gente paga un biglietto perché vuole farsi strabiliare, altrimenti basterebbero i dischi», spiega il «vampiro» Simmons. «Ecco perché uno spettacolo dei Kiss va ascoltato con gli occhi prima che con le orecchie».

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