Occhi azzurri, sorriso: Gaia De Laurentiis al Carcano

Insieme a Ugo Dighero in “Alle 5 da me”, commedia francese di Pierre Chesnot per la regia di Stefano Artissunch

Gaia De Laurentiis

Gaia De Laurentiis

Milano, 4 aprile 2019 - Primo piano sparato. Capello corto, biondissimo. Occhioni azzurri e una manciata di faccette buffe. Si presentava così Gaia De Laurentiis a Target, successo tv di metà Anni Novanta. Difficile scordarsela. Da allora fiction, quattro figlioli e parecchio teatro. Come da stasera al Carcano con “Alle 5 da me”, commedia francese di Pierre Chesnot per la regia di Stefano Artissunch. Al suo fianco Ugo Dighero, con cui già divideva il palco in “L’inquilina del piano di sopra”. Qui per raccontare di due sposini che giocano a mettere in scena le loro precedenti (bizzarre) relazioni. Roba che nella realtà sarebbe pericolosissima. Mentre in scena si ride. Per fortuna.

Gaia, vi prendete gioco degli ex?

«Qualcosa del genere. Siamo una coppia che inizia a mettere le proprie storie sotto la lente d’ingrandimento, con molta ironia. Perché di solito quando ti prendi una cotta non ti accorgi di tante cose, ma poi emergono stranezze delle persone. Sarà capitato a tutti».

Decisamente.

«E infatti la gente vi si ritrova, si ride tantissimo».

Anche voi vi divertite?

«È un aspetto marginale, non sempre arrivano le cose che ti sembrano funzionare meglio. C’era un episodio con una vigilessa che a leggerlo trovavamo molto buffo ma che in scena invece non funzionava. L’abbiamo tagliato. Magari bisognava solo lavorarci di più ma non sempre te lo puoi permettere».

A teatro invece lei lavora da quando aveva 17 anni.

«Sì, ero giovanissima. Considero il palcoscenico casa mia, non mi ha mai abbandonato. Poi certo, quando facevo Target la gente magari non sapeva nemmeno dei miei spettacoli, ma pazienza».

Le manca quel tipo di successo?

«Le cose hanno un’evoluzione, nessun aspetto della vita è scollato dalla tua interezza. Se avessi proseguito con la tv non avrei avuto l’opportunità di fare bellissimo teatro. Era una tv che prometteva bene, ora invece il periodo mi sembra un po’ buio. Ma mi mancano le fiction».

Come visse quel periodo?

«Fu uno scombussolamento. Ci ho messo anni a capire cosa non tornava. Provenivo da un ambiente familiare di artisti, abituati ad andare a fondo delle cose, ad analizzarle. Di fronte a un successo così travolgente mi ritrovai a domandarmi: tutto questo solo per un bel sorriso? Mi mancava la spensieratezza, me ne vergognavo. Col tempo ho guadagnato autoironia e capacità di dire “chissenefrega”».

La Scuola del Piccolo con Strehler fu più spensierata?

«Per me era un momento di passaggio, volevo imparare. Per molti altri un punto di arrivo. Avevo le ali della giovinezza ma anche la forza di rimanere coi piedi per terra, altrimenti pensi che sia normale portare l’Arlecchino all’Opéra di Parigi. Non a caso, finiti gli studi, avrei potuto gravitare nell’orbita del Piccolo; invece scelsi di andare a doppiare cartoni animati. Avevo bisogno di soldi per la patente...».

Fa tenerezza a pensarci.

«Ma fu quello a salvarmi. Ero molto pratica. E riuscii perfino ad andare in vacanza!».

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