Milano, 29 luglio 2011 - Gabriele Albertini ha dovuto aspettare sei anni e un’inchiesta originata da canali diversi dalle quattro denunce da lui presentate già dal 2005 perché si riaccendessero i riflettori sull’acquisto delle quote di Marcellino Gavio nella società autostradale Milano-Serravalle da parte della Provincia di Milano, sotto la guida di Filippo Penati.

 

L’inchiesta è quella della procura monzese, che ha portato Penati a dimettersi dal Consiglio regionale. Le accuse formulate contro il braccio destro di Pierluigi Bersani sono «corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti». Nel mirino 5 milioni di presunte tangenti per la riqualificazione delle aree sestesi ex Falck e Marelli. Tra gli indagati per finanziamento illecito ai partiti c’è anche Bruno Binasco, uomo di fiducia di Gavio. È questa l’inchiesta che riporta alla ribalta il caso Serravalle.

 

La vicenda è nota: nel luglio 2005, Penati acquista le quote di Gavio portando la Provincia a detenere il 53 per cento di Serravalle. Ma la maggioranza della società era già pubblica e vincolata dal Patto di sindacato tra il Comune e Palazzo Isimbardi. Albertini, allora sindaco di Milano, è furibondo. Penati lo ha messo davanti al fatto compiuto, fa sapere da subito. Il 18.5 per cento detenuto dal Comune in Serravalle vale carta straccia, il patto di sindacato è stato violato. Albertini si rivolge quindi ai giudici sottolineando l’inutilità dell’acquisto da parte della Provincia. A colpire sono anche i numeri dell’operazione: Penati paga 8.973 euro a quota, Gavio le aveva pagate 2.9. Il re delle autostrade, come era definito Gavio, incassa una plusvalenza di 179 milioni. Ora Albertini chiede che sia accertato dove siano finiti quei soldi.

 

Albertini, rieccoci a parlare del caso Serravalle.
«In questi anni non ho mai smesso di sperare che la magistratura prendesse in esame quanto successo nel 2005. Nonostante le mie denunce, non siamo riusciti a trovare un giudice che se ne occupasse a Milano. Prima di presentare l’esposto mi consultai con Antonio di Pietro e lui aveva ipotizzato i reati di truffa aggravata e abuso d’ufficio, oltre che di corruzione. Presentato l’esposto, ho trovato scarsa motivazione da parte dei pm milanesi che hanno evidentemente deciso di lasciar cadere il caso. Al mio avvocato che chiedeva informazioni sul percorso della denuncia, fu risposto di non disturbare. Per fortuna ora a Monza c’è qualcuno che vuole vederci chiaro».
Perché i pm milanesi non si sono mossi, secondo lei?
«Questo per me resta un interrogativo che non voglio pormi, per non pensar male. Certo non per pèigrizia, ricordo che per la vicenda degli emendamenti in bianco, un funzionario del Comune fu interrogato con metodi - mi disse lui - da Gestapo da mezzanotte fino alle 2 del mattino».
Perché Penati ha acquistato quelle quote della Serravalle, secondo lei?
«Mi viene in mente Piero Fassino che intercettato nell’inchiesta sulla scalata a Unipol, chiede: “Abbiamo una banca”. Secondo quanto emerso finora, 50 di quei 179 milioni di plusvalenza ottenuti da Gavio sono finiti nella cordata per Unipol guidata da Consorte e altri 2 a Penati tramite la caparra confirmatoria non liberata. Il resto? Sono finiti al partito? Questo deve essere accertato».
Ora la questione morale è tutta nel Pd?
«La questione morale doveva esplodere allora, non oggi. A fine 2005 un mio assessore mi fece avere una lettera in cui c’era scritto che la transazione Serravalle era stata seguita dai massimi vertici del partito e che doveva tornare utile alla campagna elettorale per le provinciali. Non potei utilizzare la confidenza del mio assessore come atto di accusa ma la usai come atto di difesa quando Gavio mi querelò».

I magistrati - intende dire Albertini - sapevano. E i Ds oggi Pd pure. «Quell’assessore — aggiunge infine — non fu mai sentito in procura».