Mapei, il colosso milanese della chimica. Squinzi: "Confermo, mai licenziato nessuno"

L'amministratore unico dell'azienda, ex presidente di Confindustria, racconta le principali svolte e i piani futuri del colosso milanese

«Il nostro mercato  è gigantesco Alcuni  Paesi  negli anni   non sono stati brillanti, certo Ma crediamo davvero  in quello  che facciamo  e non siamo mai arrivati  al punto  di chiudere  o licenziare»

«Il nostro mercato è gigantesco Alcuni Paesi negli anni non sono stati brillanti, certo Ma crediamo davvero in quello che facciamo e non siamo mai arrivati al punto di chiudere o licenziare»

Milano, 1 maggio 2019 - Gli anni ’80 sono stati quelli del Nord America, i ’90 quelli dell’Estremo Oriente e i 2000 quelli dell’ex Unione Sovietica. E ancora: negli ultimi anni l’azienda si è concentrata sul Sud America. Il prossimo decennio non potrà che essere quello dell’Africa. È il giro del mondo attraverso la storia e i piani di crescita della Mapei, l’industria chimica italiana da 2,5 miliardi di fatturato e 10mila dipendenti che, a partire dal 1978, ha aperto 81 stabilimenti nel mondo restando un’azienda rigorosamente familiare. Pensi alla Mapei e pensi al Sassuolo, ma l’impresa è milanese nel profondo. Siamo nel quartier generale di Mapei, in viale Jenner, e a pochi passi c’è il più importante centro di ricerca dell’azienda, nella stessa area che ospitava il piccolo laboratorio del fondatore in via Cafiero. L’amministratore unico di Mapei, Giorgio Squinzi, ha appena finito una riunione nel suo studio con i familiari (guidano con lui l’azienda la moglie Adriana Spazzoli e i figli Marco e Veronica) e i manager del gruppo. «Mio padre correva in bici, la sua grande passione – attacca a raccontare Giorgio Squinzi – Va a lavorare da un signore che gli avrebbe lasciato il tempo per allenarsi. Così impara il mestiere, ma nel ’37 si mette in proprio. Tra le prime produzioni ci sono gli intonaci colorati per le facciate dell’ospedale Maggiore di Milano».

Quali sono le produzioni che hanno fatto crescere l’azienda?

«Dopo la Guerra ci dedichiamo ai prodotti per i pavimenti in materiali come linoleum, gomma e pvc. Un mercato all’epoca presidiato dalla Pirelli».

Poi arriva il boom delle ceramiche...

«A partire dagli anni Cinquanta abbiamo cavalcato questa grandissima crescita con i prodotti necessari al settore. È stata la leva per la nostra internazionalizzazione».

Qual è il vostro modello?

«Aprire una filiale commerciale in un Paese per poi passare all’insediamento produttivo quando i volumi richiesti dal mercato diventano consistenti. Una delle nostre mosse vincenti è stata quella di decentrare le produzioni non per risparmiare sulla manodopera, ma per essere più vicini ai mercati».

Quanti stabilimenti avete nel mondo?

«Abbiamo 81 stabilimenti nel mondo. Ma c’è anche un altro motivo dietro alla diffusione dei nostri siti produttivi: i nostri prodotti possono essere trasportati al massimo per 500 chilometri, se la distanza diventa superiore la marginalità è così bassa che non giustifica il trasporto».

Ma come fa una famiglia a controllare un colosso come il vostro?

«Quando andavo le prime volte in azienda da bambino mio padre aveva 6 dipendenti. Adesso ovviamente il contesto è molto diverso, ma la famiglia può controllare allo stesso modo. Molti manager sono cresciuti con noi e quando ottengono buoni risultati vengono premiati. Certo, è capitato anche di sostituirli ma è successo raramente».

E la ricerca e sviluppo cosa rappresenta per voi?

«Una tradizione di famiglia. Mio padre era un self made man ma non ha mai smesso di pensare ai nuovi prodotti da lanciare. Io stesso mi sono occupato per anni proprio di questo aspetto. Adesso 800 persone nel mondo lavorano nei nostri 31 laboratori condividendo il loro lavoro».

Come vede, a distanza di 25 anni, l’acquisizione di Vinavil?

«Era un’azienda decotta e l’abbiamo riportata a livelli alti. Finora non c’è mai capitato di doverci pentire di un’acquisizione fatta. Da ognuna è arrivato qualcosa».

Siete molto legati all’edilizia, ma che cosa rappresenta per voi l’Italia?

«Siamo milanesi e penso onestamente che Milano sia una delle città più belle del mondo. E lo siamo anche se il peso dell’Italia è sceso nel gruppo: nel 2005 rappresentava il 37% del fatturato, adesso non va oltre il 15».

Qual è invece il primo mercato?

«È quello del Nord America, dove abbiamo 20 stabilimenti. Nel 2018 solo qui abbiamo realizzato un miliardo di vendite. Sicuramente quello tedesco è stato uno dei più difficili. Abbiamo aperto uno stabilimento con un importante acquisizione nel 2002 e abbiamo impiegato 15 anni per arrivare al pareggio. Adesso, però, i risultati sono positivi».

E la Cina?

«Per noi è un mercato molto difficile. Per alcuni prodotti è praticamente impossibile entrare utilizzando pratiche commerciali corrette. Siamo passati da due stabilimenti a uno solo, che realizza solo prodotti a marchio Mapei».

Cos’ha portato all’azienda il forte legame con lo sport?

«Il ciclismo l’abbiamo scelto per le tradizioni familiari. È il mio sport preferito e per 8 anni siamo stati la squadra più forte al mondo. Il legamo con il Sassuolo, invece, è stato un debito di riconoscenza nei confronti del distretto della piastrelle. Anche questa è una bella storia. Lo sport serve senza dubbio anche a cementare tutti quelli che ruotano attorno alla Mapei, a farli sentire davvero una squadra».

È sempre stato categorico nell’escludere l’ipotesi di una quotazione. Sarà così anche in futuro?

«Semplicemente non è stata necessaria perché siamo sempre cresciuti bene. La scelta nel futuro spetterà ai miei figli, ma noi siamo sempre stati della scuola “Azienda ricca, famiglia povera” (sorride) e gli utili sono sempre reinvestiti. In poche parole, non ne abbiamo mai sentito il bisogno».

Nel 2017, quando avete festeggiato gli 80 anni, disse con un certo orgoglio di non aver licenziato nessuno. È ancora così?

«Confermo. Il nostro mercato è grande, gigantesco. Ci sono stati Paesi che non sono stati brillanti, certo. Ma crediamo davvero in quello che facciamo e non siamo mai arrivati al punto di chiudere o licenziare persone».

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