Umberto Angelini di Teatro dell’Arte: "Lo sguardo internazionale paga"

Intervista al curatore artistico per Fondazione Crt, Teatro dell’Arte, Umberto Angelini

INNOVATIVO Umberto Angelini  (sotto) soddisfatto  di come si è chiusa  la stagione: «In un anno e mezzo siamo riusciti a risvegliare l’interesse della città e non solo viste le tante  richieste  di collaborazione da parte  di realtà straniere»

INNOVATIVO Umberto Angelini (sotto) soddisfatto di come si è chiusa la stagione: «In un anno e mezzo siamo riusciti a risvegliare l’interesse della città e non solo viste le tante richieste di collaborazione da parte di realtà straniere»

Milano, 11 agosto 2018 - Il primo risultato è stato forse il più difficile: ricordare ai milanesi che in viale Alemagna esiste un teatro. Il secondo riempirlo di cose belle. Come la scorsa stagione. Quando l’orizzonte è parso simile a Berlino, Brussels, Zurigo. Da gennaio 2017 curatore artistico per Fondazione Crt, Teatro dell’Arte, Umberto Angelini sta segnando un nuovo corso in Triennale, dopo la lunga esperienza fra realtà indipendenti (la galassia di Uovo) e istituzioni (il Grande di Brescia). Parole d’ordine: pluralità e sguardo internazionale.

Angelini, soddisfatto di come si è chiusa la stagione?

«Molto, la prima edizione di Fog ha avuto ventimila presenze, numero significativo anche per un festival già avviato. In un anno e mezzo siamo riusciti a risvegliare l’interesse della città e non solo, viste le tante richieste di collaborazione da parte di realtà straniere. Abbiamo avvicinato il pubblico più giovane, in evidente discontinuità con il passato. E sta pagando la scelta di una programmazione incentrata sulla scena internazionale, che sarà sempre più strategica nella nuova governance di Triennale con la presidenza di Stefano Boeri. Stranamente c’era un deficit di internazionalità nel teatro a Milano».

Cosa intende?

«Siamo in una città europea che gioca a livello mondiale in alcuni campi come il design, l’architettura, la finanza. Ma al di là di alcune storiche eccezioni, le scelte artistiche hanno preferito altro. Una visione legittima, l’origine straniera non è un valore in sé. Ma in uno scenario cittadino si ha il dovere di ricercare un raggio più ampio».

Tempo fa sottolineava la debolezza delle istituzioni.

«C’è un grande problema di credibilità e di autorevolezza, oltre l’ambito culturale. In città è invece urgente interrogarsi sul ruolo delle realtà indipendenti, della cui vivacità non si può fare a meno in un contesto di scambio e supporto. Per lungo tempo le istituzioni hanno faticato a dettare una linea, oggi c’è una consapevolezza diversa, nonostante sia oggettiva la debolezza della comunità creativa dello spettacolo dal vivo nel farsi sentire».

Come vorrebbe che fosse vista Triennale Teatro?

«Un luogo plurale, vivo, internazionale».

L’Italia sembra andare in un’altra direzione.

«Pochi giorni fa sono stato al concerto di David Byrne agli Arcimboldi e ho pensato di essere alla fine di un’epoca. Un artista elegante, colto, raffinato: parole che non sembrano più far parte della nostra società».

Risposta disperata. «Fatico a vedere all’orizzonte il cambiamento». Quando andrà a lavorare all’estero?

«No... Qualche tempo fa ammetto di averlo pensato ma adesso sto bene qui».

Che rapporto ha con Milano?

«Mi sono trasferito per l’università. Ma già andavo e venivo da Ascoli per frequentare una ragazza e cercare concerti post-punk. Era anche l’occasione per andare a teatro. Milano è stata una scelta di pancia e di cuore. Da 7, 8 anni ha la consapevolezza delle proprie potenzialità, vedo figure importanti, è il momento di scommettere su nuovi cavalli».

A chi sta pensando?

«Ai ragazzi provenienti da quei paesi nel mondo in cui la democrazia non è pane quotidiano. La loro forza potrebbe avere forme contagiose e svegliare dal torpore la società occidentale».

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