Da Sesto San Giovanni a Manhattan, l'avventura del dj e produtture Stylophonic

Per Stefano Fontana le radici contano. Pure ora che partecipa a produzioni internazionali e registra dischi a New York

PASSIONE Il dj Stylophonic

PASSIONE Il dj Stylophonic

Sesto San Giovanni (Milano), 23 agosto 2018 - Vengo da Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, e sono cresciuto con il viavai delle maestranze davanti agli occhi, respirando quell’aria densa di lavoro e di polveri sottili che, una volta abbracciata l’attività di dee jay, mi ha portato ad associare il mondo dell’industria a quello della notte perché pure lì c’è una ritualità simile a quella di chi va in fabbrica... Per Stefano Fontana, meglio conosciuto come Stylophonic, le radici contano. Pure ora che partecipa a produzioni internazionali e registra dischi a New York. Dei suoi 47 anni, d’altronde, una trentina li ha spesi alla consolle. «Nonostante frequentassi ancora le superiori, la mia prima busta paga l’ho avuta a 17 anni», ricorda. «Ho scoperto, infatti, la figura del dee jay ascoltando i dischi di mio padre, appassionato di black music, disco, funk e via dicendo». Le quindici tracce di “We Are”, il suo ultimo album, Stefano-Stylo le ha registrate con il cantante funk Kena Anae e i suoni di Dave Darlington, già ingegnere di Sting, Bob Sinclair, Basement Jaxx. Confezione americana, ma anima lombarda.

Da Sesto a Manhattan il passo è lungo. Come s’è ritrovato dj?

«Leggendo le note riportate in copertina, dove spuntavano scritte tipo “edit by dj Jellybean Benitez”. Dj? Rimasi colpito da questa figura rivoluzionaria, un po’ come un undicenne di oggi può esserlo da Sfera Ebbasta. I dj hanno realmente gli asset del mondo della produzione e di quello discografico».

Un paio di vinili di suo padre che hanno contribuito all’opera?

«Il 45 giri di “The breaks” di Kurtis Blow, uno dei primi pezzi hip-hop del 1980, ma pure “So ruff so tuff” della Zap Band di Roger Troutman, col loro tentativo di portare il funky sul dancefloor. Già, perché quello che fa oggi Bruno Mars è anche lo sviluppo di certi esperimenti iniziati oltre trent’anni fa».

Esistono, quindi, dei corsi e dei ricorsi nella musica?

«Assolutamente sì. Col vantaggio che, frattanto, la tecnologia è progredita offrendo nuove possibilità alla fantasia dei produttori, consentendo loro di aggiungere al prodotto finale quel quid capace di renderlo un “refresh” in linea coi tempi e non un’operazione nostalgia».

Il web agevola di molto le cose.

«Sì, anche se un tempo il dee jay era tenuto a conoscere tutto e a mantenersi costantemente aggiornato mentre oggi, magari, scopre che sono esistiti i Parlament o la Zap Band perché ascolta Bruno Mars. O la techno di Detroit e la house di Chicago perché qualche produttore sotto i riflettori dice di essersi ispirato a quei suoni là».

A giudicare dalla “Dancing machine” dei Jackson 5 presente in quest’ultima fatica si direbbe che non solo di Anni Ottanta vive il dj.

«Assolutamente no. Inizialmente con quel pezzo del ’73 avrei voluto farci un bootleg, poi, quando ho scoperto che pure Kena Anae era appassionatissimo di Michael e degli altri Jacksons, mi sono detto: prima di “sposarci” per un album intero, “fidanziamoci” con questo brano. E il risultato mi ha fatto capire che era proprio lui il cantante di cui avevo bisogno».

Da quando ha mosso i primi passi, il mondo della notte è molto cambiato.

«La follia di questi tempi è che siamo tutti connessi con i nostri smartphone, ma allo stesso tempo lontanissimi dalla persona ci balla accanto in pista. Una gigantesca contraddizione che ha ribaltato il ruolo del dee jay, trasformandolo da parte della festa - per capirci, quello che metteva in comunicazione le persone e creava il senso di comunità - al protagonista assoluto di selfie e filmati. All’inizio è stato un po’ frustrante, ma oggi non ci faccio più caso. D’altronde se il mondo del clubbing continua a darmi fiducia, vuol dire che questo lavoro lo faccio ancora bene».

 

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