Roberto Herlitzka alla Milanesiana: "Vi presento un Dante più intimo"

Il più grande attore italiano rilegge il sommo poeta, voce attuale, senza declamare

Roberto Herlitzka

Roberto Herlitzka

Milano, 10 giugno 2019 - Si legge che per capire che Roberto Herlitzka è il più grande attore italiano è indispensabile incontrarlo a teatro. Vero solo in parte. Limitando ai ruoli nei film di Bellocchio, «Il sogno della farfalla», «Bella addormentata», «Sangue del mio sangue», l’indimenticabile Aldo Moro di «Buongiorno, notte» è immediata questa grande statura artistica, che è cripta e cattedrale, e un inimitabile modo di combinarle. Ultima apparizione, il severo rabbino di «I nomi del Signor Sulcic» di Elisabetta Sgarbi. Si va a incominciare (stasera alle 21 Palazzo Mezzanotte) la 20esima edizione della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta, tra Nobel, concerti, mostre e premi: al regista Citto Maselli, allo scrittore Ngugi Wa Thiong’O, agli attori Rezza&Mastrella. Il «la» spetta a Herlitzka, in scena con la lettura dantesca «Ahi serva Italia, di dolor ostello».

Voce lontana sempre presente?

«Direi di sì. Dante è sempre attuale».

In questa Italia?

«Non sono un esperto di politica, ma non si parla d’altro. Non posso fare a meno di notare la contingenza».

La colpa punita in quel canto è la negligenza.

«Lo siamo, noi italiani, negligenti. Da sempre. Possiamo considerarci un po’ puniti».

Ma il tema non è la Speranza?

«Sì, nel Purgatorio la speranza è la fonte di tutto. Tutti pregano perché accada qualcosa che viene dalla speranza. Altrimenti... sarebbe un inferno!».

Chi parla di «fine della storia» nella nostra epoca non prevede il principio speranza. Lei?

«Non sono uno storico, né un filosofo. Ho le mie letture. E comprendo che approfondendo si arrivi a quel che in superficie dice la gente: non c’è più speranza! Dal punto di vista culturale, parlo per me, è un momento assai difficile. Ma la speranza fa parte della vita. È il nostro modo di difenderci. Io me la tengo stretta».

Quale voce avrà questo Dante stasera?

«Tenderò a farne una cosa intima, tranne in certi momenti in cui mi rivolgerò al Paese. Ma senza declamare. È Dante. Dante non si inalbera al di sopra del popolo, resta dentro».

Il teatro è vivo o è museo come dicono?

«Non credo possa morire. Sono persone vive che si rivolgono a persone vive. E non sono contrario all’idea di museo. Quando ammiriamo Giotto, Caravaggio... Non è un museo?».

Si ricorda quando ha deciso di diventare attore?

«Come fosse oggi».

Una folgorazione?

«Forse, ma strana, molto convenzionale. Ho deciso di salire sul Carro di Tespi una sera, con mia madre a teatro. Invece del concerto, come al solito, si rappresentava un’operina del ‘700. Gli attori sono venuti a ringraziare alla ribalta, davanti a noi, sotto tutte quelle luci. In quel momento».

Perché strana?

«Ancora oggi non sono capace di ringraziare bene. Mi imbarazza. E non sono un attore che ‘sente’ l’illuminazione. Fatico a starci. Sfuggo un po’ le luci».

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