Chailly: "Una Scala per il futuro"

Botta e risposta con il direttore musicale del teatro alla Scala, ospite nella redazione de Il Giorno

Riccardo Chailly

Riccardo Chailly

Milano, 29 maggio 2018 - Diretta Facebook dalla redazione del nostro giornale di un incontro del Maestro Riccardo Chailly con giornalisti e allievi dell’Accademia della Scala: quaranta minuti di botta e risposta.

Qual è il segreto per essere un grande della bacchetta? «Nessun segreto. La musica dovrebbe sempre arrivare al cuore: inteso non solo come luogo di emozioni, ma di sorpresa, domande, fastidi, a volte persino irritazione. Quello che conta davvero, penso sia il credere molto in quello che si fa».

E adesso che dirige un teatro come la Scala? «È un teatro in cui sono cresciuto negli anni in cui mio padre era direttore artistico, che quindi ho frequentato mentre studiavo al Conservatorio. Poi ho cominciato a lavorarvi come assistente di Claudio Abbado, continuando ad ascoltare tutti i grandissimi direttori che in quegli anni si succedevano. Superati i 65 anni, ognuno ha compiuto il proprio percorso che è anche preparazione: quindi la responsabilità che ho oggi credo di averla all’età giusta, quando ci si può rendere conto che in una grande istituzione si fa parte della sua storia, non si può rappresentare solo se stessi. La Scala, in particolare, è senz’altro un teatro molto esposto, che ti fa sentire quotidianamente il senso della responsabilità che hai ma che ti dà anche le possibilità – per quanto concerne orchestra, coro, maestranze – di svolgere al meglio il tuo lavoro».

Cosa significa essere direttore musicale d’un teatro del peso della Scala? «Per me significa innanzitutto documentarsi sul suo passato, perché si costruisce il presente, preparando il futuro, dopo aver proficuamente assimilato il passato. In quest’ottica sono nate le riproposizioni della verdiana “Giovanna d’Arco”, mai più data alla Scala dopo esservi nata, e della prima versione di “Madama Butterfly”».

Rapporto col territorio: l’apertura a nuovi spazi (i concerti in piazza Duomo; il recente Festival di musica sacra a Pavia) è ricerca di nuovo pubblico o di diverse modalità interpretative? «Entrambe. Gli ormai numerosi spettacoli per bambini hanno avuto grande successo (forse addirittura più con i genitori che con i bambini!), i concerti in piazza sono diventati non un’abitudine forzata bensì un desiderio spontaneo dell’orchestra, cui mi unisco con convinzione. Poi prove aperte, abbonamenti speciali per giovani. C’è anche la scelta del repertorio in relazione al luogo, certo: ma è importante che si tratti sempre di capolavori e che uniscano passione dell’ascoltatore ma anche dell’esecutore: quant’è bella, e quant’è gratificante suonarla, certa musica cosiddetta “popolare”!»

Parliamo di giovani: l’Accademia della Scala. L’orchestra ha avuto di recente un premio importante. «Sarebbe sbagliatissimo e presuntuoso sostenere che, siccome tale premio è arrivato quando ero io direttore musicale, mio ne sarebbe il merito. Decenni di lavoro svolto dai tre direttori precedenti (Abbado, Muti, Barenboim) hanno fatto sì che l’orchestra sia oggi quello che è».

Quarant’anni di collaborazione con la casa discografica Decca, quasi un record... «La sala di registrazione consentiva possibilità maggiori: oggi che s’incide dal vivo, l’editing consente buoni risultati da ottenersi con ascolti ripetuti fino all’esasperazione, mixando diverse esecuzioni.Ma ho sempre creduto molto nel valore di documento storico del disco».

La Decca è la casa che ha lanciato i Rolling Stones... «Già: peccato! Io amavo molto di più i Beatles. Li ascolto ancora adesso, dopo cinquant’anni: non solo per ritrovare certe atmosfere ed emozioni, ma proprio perché non li reputo affatto invecchiati».

Come si gestisce “l’ansia da prestazione”? «Sapendo che fai la professione che hai scelto, ed essendo consci di aver studiato a fondo, con consapevolezza. L’emozione c’è un minuto prima che ti chiamino sul podio: poi, la concentrazione fornita da tutto quello per cui hai lavorato, lavora per te, e ti porta».

Come vive l’era dei talent? «Quando ho cominciato, un maestro era rispettato solo se aveva passato i 50. Oggi tutto è più accelerato, ed è magari bello dare più possibilità. Ma c’è il grosso rischio della mancanza di tenuta nel tempo. Non credo tanto nell’improvvisazione talentuosa: credo più nello studio minuzioso».

Si dice che per Milano questa sia un’epoca da Rinascimento: è d’accordo? «Bisognerebbe chiederlo a chi conosce bene tutti i settori produttivi e culturali della città. Certamente è un periodo di grande crescita. Io sono ottimista».

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