"Giochi spariti e amicizie da stadio, vi racconto la mia Porta Romana"

Nicola Molignini, milanese, classe 1968, debutta con un affresco di quartiere ambientato al crocevia fra anni '70 e '80

L'autore Nicola Molignini al Pogue Mahone's, popolare pub di Porta Romana

L'autore Nicola Molignini al Pogue Mahone's, popolare pub di Porta Romana

Un po’ I ragazzi della via Pal, un po’ Stand by me, un po’ La scuola di Daniele Lucchetti. Un anno a rotta di collo nella vita di cinque amici per la pelle che scorrazzano nella Milano al crocevia fra due decenni. I ’70 delle lotte politiche e degli scontri di piazza e gli ’80 dell’edonismo e delle tribù divise per stili e passioni musicali. “Pallonate al muro” (edizioni Albatros) è il romanzo di formazione che segna il debutto di Nicola Molignini, classe 1968, milanese della terra di mezzo fra Porta Romana, viale Bligny e il Parco Ravizza. Un territorio che è il set dove agiscono i suoi personaggi, ritagliati su figure realmente conosciute nel corso della sua adolescenza. Un’autobiografia dei sentimenti e dei luoghi dell’anima.

Quanto è cambiato il quartiere in cui è ambientata la vicenda dei cinque amici? “Completamente. Allora ospitava una popolazione del tutto eterogenea. C’erano i poveri diavoli ma anche le famiglie della borghesia medio alta. Una situazione che si rispecchiava nelle differenze fra una strada e l’altra, nell’alternarsi di zone tranquille e angoli meno rassicuranti. Come il Parco Ravizza, di cui parlavamo quasi con vergogna, quando in vacanza incontravamo i ragazzi di altri quartieri milanesi o di altre città. Oggi si è trasformato in una zona più uniforme come composizione sociale”.

Quali sono le ragioni di questa mutazione? “Il ruolo sempre più decisivo giocato dall’università Bocconi nell’area. Un fenomeno che di per sé non è un male, ma che ha portato nel corso degli anni molte famiglie a lasciare i palazzi e le case in cui erano cresciuti loro da bambini e dove avevano fatto crescere i loro figli. E’ accaduto, per esempio, ai personaggi che ho ritratto nel mio libro. A rimpiazzarli sono arrivati gli studenti da fuori città, ai quali oggi sono riservati in massima parte servizi e offerte. Penso che la zona rispetto agli anni che ho voluto raccontare abbia perso l’anima. Di quell’epoca sono rimasti solo i muri”.

A quale parte del quartiere oggi perduta guarda con più nostalgia? “Alla possibilità di vivere la scuola tutto il giorno, anche fuori dall’orario delle lezioni. Io, come i protagonisti del libro, ho frequentato l’istituto Confalonieri, vicino al vecchio stabilimento della Yomo. All’epoca la scuola, finita la giornata di studi, si trasformava nel nostro parco divertimenti. Passavamo le ore a disputare partite sfiancanti a giochi come ‘Finestrelle’ o ‘Al volo’ (due giochi con il pallone, ndr). Svaghi che oggi sono spariti e che i giovani non conoscono più. Non parliamo della possibilità di rimanere a scuola anche dopo il suono della campanella”. 

Qual era la cifra del quartiere che ha descritto rispetto ad altre zone di Milano? “Era proprio in questo mix di classi sociali che lo abitava. C’erano le case di ringhiera popolate dalle famiglie working class i cui genitori lavoravano nelle fabbriche che qui avevano sede, così come palazzine di nuova costruzione riservate a professionisti e colletti bianchi. Un’impronta che oggi rivedo nel quartiere Gallaratese, che ho frequentato per lavoro e per amicizie: in quella zona la condivisione di esperienze e la partecipazione dei residenti alla vita di comunità mi pare molto accentuata”.

Com’è stato crescere all’inizio degli anni ’80, momento di passaggio fra un’epoca e l’altra? “Obiettivo del libro, che condensa la narrazione in un anno scolastico, fra il settembre dell’80 e il giugno dell’81, è proprio ricreare il clima di quell’epoca. Io e i miei coetanei, allora, ci sentivamo ancora gli anni ’70 addosso. Non esistevano i paninari o altri fenomeni tipicamente anni ’80, più fondati sull’individualismo o la divisione in piccole tribù. E nemmeno si percepiva l’esigenza di riconoscersi per l’abito o per gli accessori. Ci si divertiva con maggiore semplicità, ritrovandosi nel pomeriggio in grandi gruppi al parco o a scuola. Una piaga molto presente, purtroppo, era quella dell’eroina. Ricordo di essermi imbattuto in tappeti di siringhe usate a poca distanza dai luoghi in cui ci trovavamo per giocare. Fortunatamente, visto l’esempio dei ragazzi più anziani, la nostra generazione fu più attenta a comprendere i pericoli dell’abuso di droga pesante”. 

Un ampio spazio è dedicato a vicende legate allo stadio. Quanto ha contato nella sua giovinezza frequentare i gruppi del tifo organizzato, in particolare quelli della curva sud milanista? “E’ stata sicuramente anche questa un’esperienza formativa in senso positivo. I ragazzi del libro sono protagonisti di episodi simili a quelli vissuti da me sui gradoni di San Siro, proprio in quel campionato, il primo di serie B disputato dal Milan. Nonostante la retrocessione sugli spalti regnava l’entusiasmo. La zona in cui abitavo, poi, era ‘impregnata’ di milanismo, sia perché molti dei residenti frequentavano lo stadio, sia perché qui si trovavano luoghi e locali che erano ritrovi abituali dei tifosi rossoneri, come il bar del 15, la balera Stella Alpina o piazza Sraffa, dove si dipingevano gli striscioni. E’ reale, poi, la scena in cui i ragazzi raccontano di trovarsi all’oratorio invece che allo stadio, per nascondere ai genitori le loro avventure nel corso di partite ad alta tensione. Dovevamo stare bene attenti agli orari in cui uscire per evitare di essere scoperti”.

A questo proposito, quanto c’è di autobiografico nel libro? “I personaggi che ho scelto sono tutte persone realmente esistite. Uno ha persino preteso che utilizzassi il suo vero nome. Con molti di loro sono ancora in contatto. Ho deciso di ispirarmi a fatti reali perché volevo una storia che si avvicinasse il più possibile a quanto accadde veramente nell’anno che ho raccontato. Penso che chi allora abitava a Porta Romana possa riconoscere ogni pietra e ogni angolo a cui faccio riferimento. Forse solo per quanto riguarda gli sviluppi delle storie sentimentali ho ‘abbellito’ un poco l’effettiva realtà dei fatti”.

Crede che un adolescente di oggi possa rivedersi nei fatti che ha raccontato? “Non penso. E lo dico sulla base delle reazioni che ho ricevuto dai giovani che lo hanno letto. Per esempio qualche giorno fa il figlio 19enne di un amico mi ha mandato un messaggio vocale ‘confessando’ di essere andato in crisi al pensiero di non aver vissuto, lui e la sua generazione, episodi e passioni che ho narrato. Addirittura mi chiedeva consigli su cosa potesse fare per rimediare. Io, ovviamente, gli ho detto che ogni persona vive esperienze piene e formative a seconda dell’epoca in cui vive. Ma di certo si è consolidata in me la sensazione di aver descritto un altro mondo e un altro tempo, ormai irrimediabilmente passati”. 

 

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