Vittorio De Scalzi si racconta: "La mia musica oltre i New Trolls"

L'ex leader del gruppo presenta “L’attesa”

Vittorio De Scalzi

Vittorio De Scalzi

Milano, 28 aprile 2018 - In Liguria il cuore, a Milano i dischi. Per i New Trolls quella di “Senza orario senza bandiera” o “Concerto grosso” era una Genova che navigava nel bel mare di Lombardia, come lo chiama Fossati in una sua famosa canzone. «Incidevamo per la Fonit-Cetra, che stava in Via Meda e quindi non lontano all’uscita dell’autostrada», ricorda Vittorio De Scalzi, appena tornato sul mercato con “L’attesa”, nuova fatica in studio di un percorso solistico nobilitato dieci anni fa dal nobile affondo nel dialetto di “Mandilli” e successivamente da “Gli occhi del mondo”. «Venivamo, incidevamo e ripartivamo subito per qualche concerto, visto che al tempo ne tenevamo quasi 250 l’anno. Non c’era ancora la moda delle grandi adunate; sarebbe stato meglio farne uno da 200 mila spettatori che 200 nei locali da mille, ma erano altri tempi».

Perché “L’attesa”?

«Questo album è una specie di compendio di questi miei ultimi dieci anni della mia vita. Col tempo ho messo da parte diverse cose e alla fine ho sentito il bisogno di riunirle tutte in questo album, come perline sparse nel cassetto del comodino trasformate in una bella collana. Sulla copertina il jack della cuffia che esce dall’acqua vuol ricordare che tutte le mie idee vengono dal mare. Idee elettriche, anche se il mio rimane un animo combattuto tra prog e cantautorato».

In questo album di prog ce n’è poco.

«Esatto. Sono brani cantautorali suonati in tempi diversi e con generi diversi, che hanno per comun denominatore la mia musica e le mie parole».

E il pezzo blues “Ordinary pain”?

«È il solo in cui ho sentito il bisogno di avere accanto un grande bluesman, Paolo Bonfanti, che ha lavorato con gli americani e pure con me negli Slow Feet, la formazione condivisa con Franz Di Cioccio, Lucio Fabbri e Reinhold Kohl».

A proposito di blues, “Pino” omaggia Daniele.

«La sua morte mi ha lasciato di sasso. A volte certe musiche immortali ti tolgono la percezione che, invece, gli esseri umani lo sono. Pino l’ho conosciuto agli inizi, quando aveva ancora i capelli lunghi e se ne andava in giro intabarrato in un giaccone di pelle con le frange. Il suo manager Willy David mi disse: ascolta con attenzione questo artista che fa il blues in napoletano e io ingenuamente pensai “figurati… è come se io lo facessi in genovese”. Sbagliavo, quando lo sentii rimasi di sasso. Oggi ci sembra strano che al tempo certa musica fosse considerata controcorrente».

Le è dispiaciuto nel 2017 non festeggiare i 50 anni dei New Trolls con gli ex compagni?

«No, perché con gli altri ci siamo un po’ persi per strada. I New Trolls non esistono più da tanti tanti anni. D’altronde passa il tempo, passa il mondo e passano pure i New Trolls. Gli Stones sono dei sopravvissuti, noi no».

Con la scomparsa di personaggi come Giorgio D’Adamo e Luis Bacalov, in questi anni se n’è andato pure un pezzo della vita dei New Trolls.

«Due figure importanti per me, influenti, che magari hanno lasciato qualcosa di loro pure in questo disco. Bisogna, però, chiudere gli occhi, sganciarsi dal passato e andare avanti».

Cosa le rimane dell’epopea?

«Tanti splendidi ricordi e… i pantaloni di Mick Jagger. Glieli rubai nel ’67, quando aprimmo i loro concerti italiani. Andavo in giro dicendo che erano i suoi, ma gli amici mi ridevano dietro. Non ci ha creduto mai nessuno».

Cosa c’è nel suo futuro?

«Ho già nel cassetto il prossimo disco, molto più cantautorale di questo. Anche se nel frattempo ho terminato da solo il disco abbandonato assieme ai New Trolls nel 2007 e questo è molto, molto, prog».

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