Quel Virus che incendiò gli anni '80: l'incontro-scontro fra il punk e Milano

Intervista a Giacomo Spazio, l'artista e grafico che con il collega Marco Teatro ha curato la raccolta di tutto il materiale prodotto dal centro sociale anarchico negli anni '80

La cover della raccolta di flyer e manifesti

La cover della raccolta di flyer e manifesti

Milano - Virus. La patologia che mise Milano sulla carta geografica del punk mondiale. Niente a che vedere con la pandemia odierna, che neanche gli agitatori più visionari del collettivo che sconvolse la sonnacchiosa borghesia meneghina da bere anni ’80 avrebbero potuto prevedere. O forse sì. Perché sapevano guardare ben lontano. Del Virus e del suo scontro-incontro con Milano parliamo con Giacomo Spazio, artista, grafico editoriale che insieme a Marco Teatro, pittore e scenografo, ha curato “Virus – Il punk è rumore” (Goodfellas edizioni), collezione di tutto il materiale prodotto dai giovani punx - con la X, come si erano ribattezzati - metropolitani fra il 1982 e il 1989.

Perché questa raccolta e perché farla uscire oggi?

“Marco ed io, ci conosciamo ormai da trent’anni ed entrambi abbiamo frequentato il Virus. Abbiamo un’attitudine da archivisti. Io sono più compulsivo e lui più rigoroso. Circa due anni fa ci venne l’idea di ripercorrere la storia del centro sociale anarchico Virus anche per ripercorrere la 'nostra' e non solo, storia. Abbiamo pensato fosse necessario mostrare quello che il Virus è stato con un approccio asettico da ricercatori, perché dagli anni ’80 il punk ha accompagnato le vicende del nostro Paese, non solo dal punto di vista estetico ma anche da quello culturale”.

Quali sono i temi affrontati dai punk di allora che troviamo anche oggi?

“Sono tantissimi. Il nucleare, per esempio, sul cui eventuale ritorno si è tornati a dibattere in queste settimane. L’ambiente. Il pacifismo. Il sessismo. Poi la voglia dei giovani di incontrarsi in città e lo scontro con le istituzioni che hanno sempre osteggiato il mondo underground.  I centri sociali e le istanze che germogliano in questo universo che ancora oggi sono trattati quasi come 35 anni fa. Le istituzioni dovrebbero imparare a dialogare con queste realtà e, come avviene nei confronti più concreti, anche finanziarle”.

Come fu il rapporto del Virus con Milano, così come emerge dal materiale raccolto?

“Molto conflittuale. La città non volle mai considerare proposte e iniziative del Virus. E così dall’altra parte si optò per una radicalizzazione delle posizioni. Si cercò di ottenere visibilità per rimanere vivi e si lavorò molto al proprio interno. Milano non riuscì a capire che il Virus portava avanti un’idea di trasformazione e rinnovamento culturali”.

Quali erano le posizioni dei punk milanesi? “Tutti erano accomunati da un profondo distacco rispetto al pensiero politico degli anni ’70 e dall’adesione a una sottocultura che, nelle sue differenze, non portava avanti solo un discorso estetico. All’interno di questo gruppo si possono trovare tre linee: quella più legata al ’77 e alla spinta londinese, che portò alla nascita di band come Mittageisen, Champagne Molotov con Enrico Ruggeri, poi divenuti Decibel, HCN, X-Rated e Jumpers. Poi c’era un gruppo più disarticolato che combinava l’attenzione alla politica con un approccio più scanzonato, alternando la frequentazione del Virus con quella del Plastic, locale crocevia di scambi culturali impressionanti. Infine l’area che faceva della politica il centro della sua azione, quella degli animatori del collettivo che aprì il Virus”.

Quali furono i rapporti con le istituzioni?

“Praticamente nulli. Anche per questo abbiamo deciso di ordinare questo materiale e presentarlo al pubblico. ‘Il punk è rumore’ lascia parlare volantini, flyer e manifesti. Uno storico o un sociologo che vogliano accostarsi a una sottocultura che si è fatta cultura qui troveranno il modo di conoscerla nella sua essenza più asciutta. Nel nostro volume non ci sono errori o ‘voli di fantasia’, come è accaduto in altri testi sul tema, o con romanzi che raccontano le gesta di quella generazione in prima persona”.

Giacomo Spazio nel 1980 (dalla fanzine Onda 400)
Giacomo Spazio nel 1980 (dalla fanzine Onda 400)

Politica ma non solo. Dai documenti raccolti in “Il punk è rumore” emerge anche un’attenzione alle forme di comunicazione e a una sperimentazione, seppur ruvida, dei linguaggi. Che eredità ci consegna il Virus su questo fronte?

“Sostanza del materiale raccolto è una chiara urgenza espressiva. Rimangono impresse ancora oggi, a mio parere, le grafiche crude dei Wretched (band che fece di un punk caotico con testi ultra politicizzati la sua cifra, ndr) e le mutazioni del logo del Virus che si affastellano nel corso degli anni, così interessanti che mi è venuta voglia di realizzare una t-shirt con questo simbolo”.

E a livello di spirito?

“Grafiche e stili utilizzati anche per i volantini del Virus sono stati fonte di ispirazione per i mondi più diversi, influenzando fino a oggi arte e moda per una via sotterranea. Ho conosciuto due persone attive nel settore del fashion, per esempio, uno come filmmaker , l’altro come modello: entrambi mi hanno confermato quanto l’immaginario punk sia centrale nel loro approccio al lavoro. Uno ha scelto un nickname derivato dai Disorder (gruppo hardcore punk anarchico di Bristol, ndr) e si è detto contentissimo di aver trovato il volantino di un loro concerto nel nostro libro. L’altro, il modello, mi ha chiarito quanto la grafica grezza di dischi e manifesti punk sia stata assorbita dal mondo della moda. Quello che facevano gli occupanti del Virus con un paio di forbici, un tubetto di colla e una macchina fotocopiatrice non è tanto lontano da quello che fanno parecchi stilisti e artisti, seppur con una maggior disponibilità di fondi e strumenti”.

Altri mondi che risentono della “lezione” del punk?

“Oggi i tatuaggi non vengono più bollati come ‘marchi’ di devianza, ma i primi a riscoprirli in Italia sono stati i punk, tanto è vero che molti artisti del tattoo vengono da questa sottocultura, penso per esempio a Daniele (Carlotti, ndr) del Tattoo shop di Milano che era un frequentatore del Virus. Non mancano gli scrittori, come Sandrone Dazieri, autore di gialli e di soggetti per la tv, che non ha mai fatto mistero della sua attività nei centri sociali. E ancora case editrici, musicisti e writer, molti dei quali sono cresciuti negli spazi occupati degli anni ’90, in cui l’attitudine punk si sposò alla cultura hip-hop”.

Insomma, il punk e il fermento culturale del Virus sembrano ben lontani dall’essere sepolti…

“È così. È una presenza meno evidente rispetto al passato, magari, ma con una penetrazione più globale. Persino inconsapevole, a volte. Si pensi, per esempio, alla sfumature colorate dal rosa al verde fluorescente che colorano le chiome di persone che il punk non l’hanno conosciuto direttamente. E se Fedez si fa vanto di dipingersi le unghie e arriva a lanciare una linea di smalto, non bisogna dimenticarsi che i punk, a Milano e in tutto il mondo, lo facevano quarant’anni fa. Risale all’epoca del Virus, poi, un aspetto importante che proprio in questi giorni è centrale nel dibattito politico, seppure i nostri rappresentanti  abbiano appena  dimostrato la loro arretratezza sull’argomento”.

Quale?

“Quella del punk è stata la prima generazione a non avere timore a confrontarsi con l’identità di genere. Gay, lesbiche e trans e erano ben accetti e partecipi del discorso politico e di vita". 

Manifesto di un concerto al Virus
Manifesto di un concerto al Virus

Politica, cultura, socialità ma anche divertimento. Quali furono, secondo lei, i concerti e le iniziative più belle realizzate al Virus?

“Ricordo con piacere il concerto dei romani Bloody Riot anche per una polemica fra la band, più legata al nichilismo del ’77 inglese, e gli animatori del collettivo, molto politicizzati. Uno ‘scazzo’ che si è trascinato nel tempo, con un botta e risposta finito nei libri scritti da alcuni dei protagonisti del periodo. Impossibile dimenticare, poi, l’Offensiva di primavera, una folle tre giorni in cui si esibirono gruppi da tutta Italia, organizzata con assoluta scarsità di mezzi ma enorme entusiasmo. Oppure l’esibizione dei Cccp, andata in scena quando la sede di via Correggio era già stata sgomberata e ci si era trasferiti nel ‘Klebbino’ ospitato al centro sociale Leoncavallo, segnò un momento di rottura dentro e fuori il movimento. Ci furono lunghe discussioni, inasprite dall’invito accolto da Ferretti e compagni di partecipare a ‘Milano Poesia’, una manifestazione culturale di un certo rilievo ma che veniva percepita come schiacciata sulle istituzioni. Una scelta che portò a bollare la band emiliana come un gruppo ‘venduto al sistema’. Ma quello che più era bello, era l’approccio genuino e l’assoluta assenza di barriere fra gruppi di tutto il mondo, organizzatori e pubblico”.

Ci può fare qualche esempio?

“Nel corso del nostro lavoro abbiamo recuperato alcuni fax spediti da band che scrivevano di voler venire a suonare al Virus oppure che annunciavano l’orario del loro arrivo in treno a Milano e chiedevano se qualcuno potesse andare a prenderli in stazione. Insomma, il Virus divenne in breve sinonimo di centro sociale punk per tutto il mondo. Ne parlavano i giornali underground e la stampa specializzata. Una ‘popolarità’ alimentata dalla scelta di imporre prezzi assolutamente popolari. Abbiamo avuto la possibilità di vedere un sacco di gruppi spendendo appena 2.000 lire per i biglietti dei concerti”.

Droga, ambiente, diritto alla casa: tutti temi affrontati dai ragazzi del Virus che ancora oggi non hanno trovato una risoluzione. Questo vuol dire che quell’esperienza è stata sconfitta?

“Non ci sono né vincitori, né vinti. Di certo il Virus ha contribuito ad avviare un percorso che ha portato Milano a essere una città che, pur macinando ricchezza e povertà, ha fatto dell’accoglienza e dell’accettazione valori spesso condivisi. Se a Milano vuoi uscire tutto vestito di rosa, difficilmente troverai qualcuno che ti rompe le scatole. Il Virus, poi, ha rappresentato il terreno su cui sono germogliate istanze e proposte che, successivamente, sono state rilanciate in altri spazi di socialità in autonomia, producendo come frutto le esperienze di cui abbiamo già parlato. Quanti dj, scrittori, rapper e musicisti sono venuti fuori dai centri sociali milanesi? A generare le condizioni per la loro crescita, in parte, è stata la generazione del Virus che quarant’anni fa si spese per cercare di realizzare un futuro più interessante per i giovani”.

Qual è, in conclusione, l’obiettivo del vostro lavoro?

“Personalmente mi piacerebbe fornisse una base per cominciare a studiare con un approccio più serio quanto è stato prodotto dal Virus e dall’intero movimento punk italiano. Il mondo accademico dovrebbe voler raccontare quella generazione. Per dare una continuità alle sue azioni e idee e per tenere vivo un dialogo con la società che, all’epoca, non fu possibile, data la chiusura del mondo esterno alle nostre esigenze e rivendicazioni”.

 

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro