Il teatro maltrattato, ma è vita vera: Massimo Popolizio in scena al Piccolo

L'attore sul palco con “Copenaghen”

Popolizio sul palco

Popolizio sul palco

Milano, 3 aprile 2018 - Settembre  1941, la Danimarca è occupata dai nazisti. Il fisico tedesco Heisenberg (il Premio Nobel, non il protagonista di «Breaking Bad») fa visita al maestro Bohr. Entrambi lavorano sul nucleare. Su fronti opposti. Un incontro avvolto nel mistero. In cui si ruppe un’amicizia. Ma la verità storica è impossibile da definire per Michael Frayn in «Copenaghen», da stasera al Piccolo Teatro Grassi per la regia di Mauro Avogadro. In scena lo stesso cast che già lo fece diventare un successo nel 1999: Umberto Orsini, Giuliana Lojodice e Massimo Popolizio. Intorno a loro un’amosfera irreale. Sono tutti morti. E il passato diviene un’ipotesi. Una rievocazione.

Popolizio, siete arrivati a 150 repliche, bel record.

«Numeri bulgari. Siamo andati ovunque, tantissima provincia. Non sono abituato a farne così tante, in realtà non mi diverto». Un po’ di routine?

«Si cerca di evitarla con la passione, per quanto il livello purtroppo sia molto basso. Un mestiere già complicato è stato del tutto sfondato dalla nuova legge del teatro. Ormai non esiste il problema della qualità, si pensa solo ai coefficenti, che contano più del valore artistico. Il teatro è l’ultimo dei pensieri del mondo. Un errore fatale. Il confronto fra esseri umani è la vita, è quello che siamo. Ma l’idea oggi è che fare l’attore sia un modo di vivere, non un lavoro».

Si spieghi.

«Conosce qualche famiglia in cui uno dei figli non voglia fare il regista, l’attore, il musicista? Ci descrivono come privilegiati, fortunelli che si alzano tardi la mattina e così si confonde l’hobby con il mestiere».

I teatranti però sembrano subire passivi.

«Li definirei rassegnati. Io ad esempio mi incazzo ma poi c’è voglia di vita nei miei spettacoli, sono antidepressivi. È vero che c’è molta confusione. Io non capisco nemmeno certe parole che si usano: cos’è ormai un lavoro tradizionale, di rottura, nuovo? Lo sono in relazione a cosa?».

Lei cosa cerca?

«La qualità. E un gruppo di lavoro per realizzarla. Il teatro non si fa da soli».

Ronconi è stato una svolta?

«Avevo 22 anni, forse sì ma non lo sapevo. Di certo ho cominciato con quell’imprinting, nella Serie A. Mi ha permesso di lavorare con tutti i più grandi attori. Se uno ha un padre, ha pure parecchi zii».

Il cinema va pazzo per lei.

«Sì, proprio ora che sono vecchio e ho questa faccia qui. Con l’età ho imparato a gestire il disagio della macchina da presa, ho capito che sono due lavori diversi. Nonostante la paura mi ha fatto piacere anche interpetare Mussolini in «Sono tornato», mentre di recente ho fatto tre pose per il nuovo film di Sorrentino ma forse Paolo ha dovuto tagliarmi. Chissà».

Dovremmo un po’ parlare di «Copenaghen»...

«È un lavoro che si basa su un interrogativo morale, il diritto o meno per un fisico di utilizzare l’energia atomica se il proprio paese è in guerra. È un testo furbo, che unisce molte cose appoggiandosi al Principio di Indeterminazione, ovvero che lo sguardo dell’osservatore cambia ciò che si osserva. Come si spiega se no Hiroshima?».

Lei che idea si è fatto di Heisenberg?

«Frayn lo assolve completamente. Ma sono altri i documenti per risalire alla verità, qui c’è una base teatrale forte per cui non è importante il cosa ma il come. Lo spettacolo lavora su dinamiche emozionali, la realtà non è sempre altrettanto emozionante».

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