'Mai Generation', al Teatro Pime gli adolescenti e l’eterna ribellione

In anteprima la nuova produzione degli Oyes per la regia di Stefano Cordella

Gli Oyes

Gli Oyes

Milano, 20 giugno 2019 - C'è ancora spazio per i sognatori? Per i dreamers del terzo millennio? Su questo s’interrogano gli Oyes in “Mai Generation”, regia di Stefano Cordella, domani alle 21 in anteprima al Teatro Pime di via Mosè Bianchi. Titolo geniale. Per la nuova produzione di una delle poche (pochissime) realtà under 35 riconosciute dal Mibac. Il progetto è indirizzato agli adolescenti. Ma si guarda curiosi ad ogni età. Anche perché c’è uno stretto confronto generazionale fra questi ragazzi che occupano la scuola e i loro nonni sessantottini, prima di diventare alfieri del neoliberismo globalizzato. Che ognuno faccia i conti con i propri fallimenti. Magari preservando quell’energia ribelle a cui danno vita Daniele Crasti, Francesca Gemma, Dario Sansalone e Francesco Meola.

Cordella, a quale generazione state parlando?

«Agli adolescenti, attraverso il confronto con il ’68. In realtà durante lo spettacolo sono coinvolte tutte le generazioni dell’ultimo mezzo secolo. Ma il fuoco principale rimane sul dialogo fra chi ha vissuto la contestazione e i ragazzi di oggi, troppo spesso raccontati come fannulloni, incapaci di muoversi e sempre attaccati al telefonino. Non è così. E Greta Thunberg è solo l’ultimo esempio».

È possibile un dialogo a mezzo secolo di distanza?

«Sì, perché la curiosità non manca. Abbiamo chiesto a tanti ragazzi cosa sapessero di quell’epoca e le risposte sono state generiche. Ma nel momento in cui racconti un paio di cose, negli occhi vedi cambiare qualcosa. Sul palco non arrivano a combinare qualcosa, non agiscono, non portano fino in fondo la loro ribellione. Però attraverso crisi e fallimenti, diventano più consapevoli».

C’è anche un meccanismo inverso? Cosa insegnano i ragazzi?

«C’è una maggiore disillusione, che porta inevitabilmente ad essere meno spavaldi e sprovveduti. L’approccio al cambiamento è più lucido».

Non avete pensato al rischio di risultare paternalistici?

«Abbiamo cercato di stare molto attenti, eliminando qualsiasi tipo di giudizio e lavorando su tematiche universali. Credo sia questa la strada per non passare da maestrini. Il contesto dell’occupazione ci permette di avere diversi punti di vista e di osservare gli avvenimenti come se ci fosse una telecamera che va a curiosare nelle varie aule».

Sul palco?

«Assistiamo all’occupazione di una scuola superiore. Le motivazioni sono quelle classiche. I rappresentanti fanno da filo conduttore. Mentre il linguaggio è pulito per non scimmiottare nessuno e spesso ci confrontiamo direttamente con il pubblico. Alla fine è come se fossimo tutti in una grande assemblea…».

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