Parco Tittoni, il poeta metropolitano Guido Catalano con l'inseparabile Dente

Affinità elettive. Che dopo il successone invernale tornano in “Contemporaneamente insieme anche d’estate”

CATALANO_WEB

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Milano, 18 luglio 2018 - L'ultimo libro s’intitola “Ogni volta che mi baci muore un nazista” (e che siano allora mille baci e poi ancora cento, come scriveva Catullo...). Il suo socio canta invece romanticherie del tipo: «Comprati un mazzo di fiori che poi ti do i soldi». Quindi a pensarci non era così improbabile vedere Guido Catalano e Dente insieme su un palco. Affinità elettive. Che dopo il successone invernale tornano in “Contemporaneamente insieme anche d’estate”, stasera alle 21.30 al Parco Tittoni di Desio con la bizzarra regìa di Lodo Guenzi, leader de Lo Stato Sociale. Il poeta e il cantautore. D’altronde Catalano è da sempre vicino a suggestioni musicali. Forse per questo c’è chi lo adora. E c’è chi mal lo sopporta. Lui tira dritto. Da quasi vent’anni.

Catalano, cosa succede sul palco?

«Qualcosa di strano, difficile da definire. Di base io porto le mie poesie e Dente interpreta le sue canzoni. Ma è una vera fusione fra il reading e il concerto, con momenti teatrali e altri in cui coinvolgiamo il pubblico. Per fortuna però non canto».

Cosa avete in comune?

«Direi tantissime cose. Sicuramente tutti e due parliamo molto d’amore, Dente in maniera surreale, io più sul comico. Ma ci sono intere immagini che condividiamo, perfino modi di dire».

Come definiresti la tua poesia?

«Pop-rock. Parlo molto di me ma così facendo mi auguro di parlare degli altri. E poi spesso utilizzo un registo ironico, anche di fronte alle cose più serie».

Non c’è un recente abuso di ironia?

«Non saprei. Se intendi un certo battutismo sui social posso essere d’accordo. Ma non credo si abusi dell’ironia fatta bene, anche perché non è un qualcosa che puoi fare a tavolino. È un dono, come il senso dell’umorismo, non si può imparare. E se ce l’hai è giusto utilizzarla. Per me è un’ancora di salvezza per sopravvivere al mondo».

Cosa consiglieresti a chi vuol diventare “poeta contemporaneo”?

«Di leggere molto e di fare un uso intelligente dei social network, dettaglio fondamentale, trovando il modo di proporre quello che si scrive alla gente. Quando ho cominciato 17/18 anni fa, andavo fisicamente alla ricerca delle persone, anche se non sapevo bene come fare. Era un’esigenza e il contesto era differente, c’era grande disattenzione verso la poesia. Solo da poco le case editrici hanno iniziato a essere sensibili a noi poeti viventi».

Perché in tanti ce l’hanno con te?

«Perché sono un errore del sistema. Sono un poeta che vende libri e che ha un proprio pubblico, non è normale. A tanti non piace questo aspetto “pop” della poesia, la vorrebbero confinata nelle aule coi neon. E poi la chiave comica fa storcere il naso a qualcuno, non la considerano adatta alla poesia con la p maiuscola».

Il pubblico conosce i tuoi versi a memoria?

«Mi sono accorto che ho dei cavalli di battaglia, alcune poesie che la gente “aspetta”. Una cosa che mi accomuna effettivamente a un cantante».

Ma quali sono stati i tuoi riferimenti?

«Come credo il 90% dei poeti maschi nel mondo Bukowski, uno di cui a vent’anni non sapevo nemmeno l’esistenza perché a scuola non te lo fanno leggere. Lui ha avuto un ruolo col suo raccontare la vita sporca e basica. Ma mi ispiro più alla musica che alla poesia, a cantautori come De Gregori o Guccini o perfino ai fumetti, leggo e rileggo da sempre i Peanuts. Ovviamente poi Woody Allen, maestro indiscusso di autoironia».

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