Gianfelice Facchetti: "Vi parlerò del calcio. E dei suoi miti"

Il figlio del grande Giacinto: il mio monologo per spiegare perché questo sport appassiona ancora oggi tanta gente

Gianfelice Facchetti

Gianfelice Facchetti

Milano, 4 gennaio 2020 -  È un virus che prende da bambini. I sintomi sono bizzarri: appena si avvicina un pallone senti il bisogno irrefrenabile di palleggiare. Una cosa così. Una febbre a 90°. Da cui Desmond Morris (sociologo inglese de “La scimmia nuda”) ha ricavato una tesi antropologica nel suo “La tribù del calcio”. Piccolo classico. Edito da Mondadori Electa. Che dal 14 gennaio a Campo Teatrale diventa un monologo scritto e interpretato da Gianfelice Facchetti. Un ragazzo cresciuto a pane, pallone e teatro. Qui affiancato dalle musiche della Banda del Fuorigioco.

Facchetti, perché partire da un saggio? "Ho pensato che fosse un’intuizione bellissima leggere il calcio da un punto di vista antropologico, per spiegare come ancora oggi riesca ad appassionare così tante persone nel mondo. Ma ho aggiunto molti stralci autobiografici allo studio di Morris, anche per scaldare la scrittura saggistica. Il taglio drammaturgico si basa quindi sulla mia vita".

Quando è entrato nella tribù? "Il mio battesimo (letteralmente) si trova in chiusura del libro “Azzurro tenebra”, dove Giovanni Arpino raccontò i disastrosi Mondiali del 1974 condividendo anche la promessa fatta a mio padre di essermi padrino. In quelle parole ritrovo i miei primi passi nella tribù, molto prima di iniziare a giocare fra i ragazzi dell’Atalanta".

Come mai non è arrivato ai professionisti? "La mia motivazione era intermittente e a un certo punto ho dato un taglio netto. Ma sono rimasti i legami e io sono sempre stato interessato alle persone: ai loro sogni, alle paure, ai desideri".

Chi sono i personaggi di cui parla? "Il primo è Alcides Ghiggia, giocatore uruguaiano, segnò il gol che fece perdere il Brasile ai Mondiali del 1950. Ghiggia fu anche il primo avversario che si ritrovò di fronte mio padre in Serie A. Poi c’è Pelè: da giovane lustrascarpe a simbolo della gioia e della bellezza del calcio. L’ultimo è Denis Bergamini, ucciso trent’anni fa. Sono legato alla sua storia e mi interessava mostrare come di fianco alle stelle, nella tribù ci sono gregari e talenti sfortunati".

Giocatore, gol, partita: cosa sceglie da interista? "Gianfranco Matteoli; il gol annullato di Rummenigge in rovesciata nel 1984 contro il Glasgow; la sconfitta a Liverpool nel 2008. Perché ero sugli spalti e sentire cantare “You’ll never walk alone” ad Anfield ti fa comprendere il senso della parola tribù".

Le piace questo calcio così legato ai soldi? "Il cambiamento è iniziato quando la tv si è impossessata del gioco. Ma credo ci sia ancora un nucleo autentico. La cosa che più mi dà fastidio è il solco che si è creato fra il campo e gli spalti. Una volta i giocatori erano riconoscenti nei confronti dei tifosi. Ora sono inavvicinabili".

Suo padre cosa ne pensava? "Sperava che la ricchezza delle tv potesse essere reinvestita in altre direzioni, magari creando un sistema cooperativistico, che evitasse la situazione attuale, dove poche squadre si spartiscono tutto".

La vita sarebbe stata più semplice senza tribù? "Non saprei proprio. Appena nato ci ero già dentro fino al collo…".  

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