Filippo Ferraresi: "Leopardi sono io. Ma con la speranza"

Al suo debutto alla regia al Piccolo dopo tanti anni al fianco di Romeo Castellucci e Franco Dragone. Una riflessione trans-disciplinare sull’uomo

Filippo Ferraresi al debutto in regia

Filippo Ferraresi al debutto in regia

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Milano - Il senso della vita. Proprio quello su cui ragionavano i Monty Python nel loro vecchio film. Solo che qui le atmosfere sono molto (molto) diverse. Sorprende infatti per rigore e serietà "De infinito universo" prodotto dal Piccolo, da domani al 13 febbraio allo Studio. Un progetto di Filippo Ferraresi. Al suo debutto alla regia dopo tanti anni al fianco di Romeo Castellucci e Franco Dragone, co-fondatore del Cirque du Soleil. Una riflessione transdisciplinare. Sull’uomo di fronte all’universo. Tre quadri. Tre monologhi affidati a Gabriele Portoghese ed Elena Rivoltini, chiamati ad interpretare un pastore, un astrofisico e l’assistente di un politico. Al loro fianco il performer Jérémy Juan Willi.

Ferraresi, da dove nasce il lavoro? "Intanto dalla lirica di Leopardi sul pastore errante che contempla la volta celeste e viene sopraffatto dalla solitudine, dalla mancanza di senso. Una riflessione che mi pare di vivere tutti i giorni. A questo si aggiunge l’importanza del pensiero scientifico".

Qui nei panni di un astrofisico? "Sì. Lo studio sull’origine e sulla fine dell’universo mi ha trascinato in un vortice di passione e di oblio, visto che le teorie portano a un totale disgregamento. La prospettiva si ampia poi ulteriormente con il terzo personaggio, questa misteriosa assistente che vive in dialogo con la gestione del potere. È lei a domandare alla politica una maggiore profondità nelle scelte. All’interno di un dibattito dove invece la spiritualità è stata del tutto esclusa".

C’è un legame fra i tre momenti? "No, non c’è continuità né congiunzione. Ma fra i monologhi s’inserisce una quarta figura, un acrobata, presenza non definita, di bianco vestita, fantasmatica. Riconduce la parola al piano fisico, anche attraverso acrobazie pericolose che tendono verso l’alto ma vengono spinte irrimediabilmente verso il basso". Nell’introduzione fa riferimento a Giordano Bruno. "È stata una delle ispirazioni iniziali. Era più copernicano di Copernico, che aveva appena svelato al mondo come l’uomo non sia al centro dell’universo, avviando l’immediato crollo di quei valori che pur nell’errore garantivano un po’ di equilibrio. A quel punto Giordano Bruno afferma: va bene, la scienza ci dice questo ma non vuol dire che dobbiamo sentirci perduti. Ognuno di noi può essere il centro di sé stesso".

La ricerca di senso non è per definizione disperata? "Infatti non azzarderei mai una risposta. Leopardi termina con il famoso verso: “È funesto a chi nasce il dì natale“. Ma ammetto che nel finale mi sono concesso un’immagine di speranza". Meno male.

Per la scena cosa ha pensato? "C’è una sorta di castelletto rinascimentale, prospettico per il pubblico. È un teatro della memoria, dalle proporzioni perfette".

Cosa s’impara dopo tanti anni con Castellucci? "Il rigore assoluto nella forma".

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