Fabio Concato porta "Gigi" a Palazzo Mezzanotte: è l'album dedicato a suo padre

Milano, ultimo appuntamento del Midnight Jazz Festival

Fabio Concato

Fabio Concato

Milano, 28 luglio 2018 - Uno d'estate lo vorrebbe sempre a Giannutri alla ricerca del suo cielo in una stanza. E invece quest’estate Fabio Concato gli scogli «che ci si può tuffare» li ha trovati in Calabria. Rientrerà a Milano martedì, dopo un concerto in quel di Ceglie Messapica, per ravvivare col Trio del pianista Paolo Di Sabatino gli afrori jazz dell’ultimo album “Gigi” sul palco di Palazzo Mezzanotte, nell’ultimo appuntamento del Midnight Jazz Festival.

Fabio, Gigi era suo papà. Quello che, come canta nel brano omonimo, suonava Bill Evans dicendo «quest’uomo è un fenomeno certamente, ma qui ce n’è un altro e sei proprio tu».

«Se ascolto jazz fin dall’età di tre anni lo devo a lui, a Gigi (al secolo Luigi Piccaluga, Concato è il cognome della madre - ndr). La musica afroamericana era il suo hobby e la sua grande passione. Amici come Renato Sellani o Franco Cerri dicevano che, nonostante fosse autodidatta, aveva i numeri per diventare un gran musicista. Alla fine, però, col pensiero alla famiglia, preferì fare il rappresentante di occhiali».

Com’era la Milano del jazz in cui è cresciuto?

«La stessa di mio padre e del Capolinea di Giorgio Vanni, che era un suo amico».

Cosa ascoltava Gigi?

«Amava il jazz degli anni Cinquanta-Sessanta, Miles Davis, Chet Baker, il Modern Jazz Quartet, Sonny Rollins, tanto Charlie Parker, un po’ meno Coltrane. Ma pure molta Bossa. E se anch’io oggi mi scopro ad ascoltare João Gilberto ogni volta come fosse la prima, lo devo a lui. Diversamente da Gigi, io amato alla follia pure il tropicalismo di Buarque, di Veloso, di Gil, ma poi sono tornato a João e, naturalmente, ad Antonio Carlos Jobim, che ho sempre considerato un gigante alla stregua di Cole Porter, George Gershwin, Paul McCartney».

Colossi di cui s’è perso lo stampo.

«In Brasile non è nato un nuovo João Gilberto perché non c’è stato un altro Jobim. Un po’ come qui da noi non sono nati altri Mogol perché non c’è stato un altro Battisti».

La sua idea di tradurre Jobim, Veloso, Buarque e Gil rimane parcheggiata?

«La sto riprendendo in mano, perché sento il desiderio di divulgare quella musica straordinaria e penso che dei testi in italiano potrebbero agevolare molto l’opera».

Che rapporto aveva con suo padre?

«Fra noi c’era uno scambio continuo. Ricordo che una sera Gigi mi portò a sentire Michel Petrucciani e per me fu una folgorazione, la settimana dopo fui io a fargli scoprire Pat Metheny in concerto all’Orfeo e ne rimase esterrefatto. Rifiutava l’ottanta per cento delle mie proposte, ma mai per partito preso, sempre solo dopo averle ascoltate. Una volta gli feci ascoltare “Brain saldad surgery” e “Tarkus” di Emerson Lake & Palmer col timore che me li avrebbe tirati dietro e invece rimase basito».

Cosa ricorda della canzone politica abbracciata agli esordi?

«Cantavo pezzi intimo-sociali, ma con una vena di cupezza tale da indurre un recensore, in occasione dell’uscita del mio primo disco, a scrivere che, a confronto mio, Tenco era uno allegro».

Questo disco con il Trio di Di Sabatino è la prosecuzione del percorso iniziato tra i solchi di “Non smetto di ascoltarti” con la tromba di Fabrizio Bosso e il piano di Julian Oliver Mazzariello.

«Già. Ma se quell’album era focalizzato soprattutto su canzoni altrui, col recupero solo di “Rosalina”, “Domenica bestiale”, “051/222525”, questo è incentrato interamente sul mio repertorio arrangiato in chiave jazz. Sono anni che faccio serate con Di Sabatino e siccome alla fine di ogni concerto c’è sempre qualcuno che ci chiede il disco, abbiamo deciso di accontentarlo».

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