Emilio Isgrò: "Quel che resta di Dio, fra rabbia e nostalgia"

L’eterna dialettica parole/cancellature. E le sue poesie: io, sempre ai margini per mia volontà

Emilio isgrò

Emilio isgrò

Milano, 19 gennaio 2020 -  Emozionante. E oggi capita di rado d’imbattersi in una poesia che meriti questo aggettivo. E non importano neppure le date esatte di composizione. "Le poesie di questo libro sono state scritte quasi tutte tra il 1981 e il 2019. Sono state così fittamente rimaneggiate e rifatte nel corso degli anni che oggi non so più dire quale è stata scritta prima e quale dopo", precisa il loro autore, Emilio Isgrò, artista visivo fra i più apprezzati e amati nel panorama italiano, cui un attentissimo Germano Celant ha dedicato lo scorso autunno una esaustiva mostra a Venezia, riassunta in un catalogone pubblicato da Treccani. È invece edita da Guanda “Quel che resta di Dio”, la raccolta, emozionante appunto, di poesie composte da Isgrò, che, dopo il debutto come poeta per le Edizioni Schwarz nel 1956, debutto salutato positivamente da Pasolini, si è conquistato ampia fama soprattutto con la pratica della cancellatura: soppressione del superfluo - definizione quanto mai rozza, lo sappiamo - da libri, documenti, articoli, persino testi sacri. “Quel che resta di Dio” è invece uno splendido e coraggioso susseguirsi di componimenti ora nostalgici ora rabbiosi, in un’alternarsi di versi liberi e di perfetti desueti sonetti, di scrittura bassa, “carnezzeria”, e alta, una casalinga “rosa sgrètola”.

Isgrò, in che rapporto si trovano nella tua opera le poesie con le Cancellature? L’altra faccia? La stessa faccia? La cancellatura paradossale di ciò che la Cancellatura salva? "Complimenti: plausibili tutte e tre le letture. La parola sta alla cancellatura in un rapporto dialettico. Meglio: la scrittura cancella la cancellatura e la cancellatura cancella la scrittura".

Un’eresia dire che la sua poesia ricorda la poesia di Testori: una realtà carnale che si alterna, o si somma, a una religiosità ecumenica? Le cognate monache accanto ai preti che benedicono i maiali… "Testori e io eravamo amici, buoni amici, nonostante le nostre posizioni artistiche e letterarie fossero diverse. Provavamo un rispetto reciproco. E comunque una comune avversione per i ‘poeti poetanti’. E un comune amore per la vita".

La tua poesia costituisce anche una polemica contro la comunicazione globalizzata? "Sono, e sono sempre stato, decisamente lontano dagli artisti che si costruiscono loro, attraverso i media, le polemiche senza pagare un prezzo. Il dissenso, quello m’interessa".

Oggi sembra di essere tornati ai tempi del “tutto è politico”, con la differenza che gran parte di quel tutto è triturato nella volgarità… "Anche Dante, anche Goethe non disdegnavano la parolaccia. Che i più grandi poeti sanno usare per raggiungere il sublime. Tutt’altro discorso per la volgarità fine a se stessa".

Dibattito dagli echi ormai lontani negli anni, ma a ben vedere ancora attuale: ti consideri un “apocalittico” o un “integrato”? "Né l’uno né l’altro. Io mi sono sempre volutamente collocato ai margini, ma vedevo bene i centri delle cose".

Alla resa dei conti, o alla fine della storia, quando sarà, che cosa si salverà? Isgrò? "Ci salveremo tutti, se riscopriremo la fraternità umana una volta giunti sul ciglio. Se vedo un uomo cadere, non passo oltre e non ho neppure bisogno, per aiutarlo, della benedizione del Papa".

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