Emilio Isgrò: "Io, rapito dalla città. E Kennedy si innamorò della mia cravatta..."

L'artista di origine sicialiana parla del suo rapporto con Milano, la sua città da più di 60 anni

Emilio Isgrò al Parco Sempione

Emilio Isgrò al Parco Sempione

Milano, 19 novembre 2017 - Milano è la sua città da 61 anni. «Ne avevo 18 quando mi sono trasferito dalla Sicilia per frequentare la facoltà di Scienze Politiche all’università Cattolica, nel 1956. Ma ero un pessimo studente. Volevo diventare giornalista e ho scritto per tante testate, tra cui Il Giorno, negli anni di Gaetano Afeltra». Oggi Emilio Isgrò, artista concettuale e pittore ma anche poeta, scrittore, drammaturgo e regista è tra le figure più celebri dell’arte italiana a livello internazionale. Ieri è stato un giorno speciale perché la sua scultura “Seme dell’altissimo” creata in occasione di Expo è stata donata ufficialmente alla città: resterà alla Triennale.

Che cosa la colpì di Milano quando la vide per la prima volta?

«Il fatto che fosse una città sempre in movimento. Io ne fui rapito, volevo scrivere e creare, trascinato dalla sua energia. Ho incontrato e intervistato decine di personaggi: uno su tutti, John Fitzgerald Kennedy. Ero stato invitato a viaggiare al seguito di giornalisti americani e ricordo lui, Kennedy, che mi guardava con curiosità. Mi chiese se fossi italiano, dicendomi poi che lo aveva capito dalla cravatta che indossavo. L’avevo acquistata in via Montenapoleone. Tutto questo lo racconto anche nel mio libro “Autocurriculum” edito da Sellerio. Ma ricordo bene anche Lucio Fontana, Aldo Palazzeschi, Ezra Pound. Pure Montale, che mi tolse il saluto...».

Perché?

«Per l’arte della “cancellatura”. Non capì il senso profondo del mio gesto. La “cancellatura” non elimina ma tutela la parola dall’abuso, è una coltre che la protegge dalla distruzione e ricostruisce il linguaggio umano».

Qual è la zona a cui è più affezionato?

«Quella attorno alla stazione Centrale perché è sempre stata la “mia” zona. Quando mi sono trasferito abitavo in via Vitruvio. Da decenni vivo in un palazzo di via Martiri Oscuri, un luogo nato come stazione di posta, punto d’approdo delle diligenze per il cambio dei cavalli, che poi fu una sartoria. Io l’ho trasformato nel mio studio e abitazione, con mia moglie Scilla Velati. La mia musa che ha condiviso alti e bassi, forze, emozioni e sentimenti».

Nel quartiere è stato appena inaugurato il Giardino degli artisti. Che ne pensa?

«È un bel segnale per la zona che amo. Ho sempre avuto un rapporto affettuoso e amichevole con tutti, la gente si interessa alla mia arte persino dal fruttivendolo, mentre compro l’uva. Un artista non può affliggere il mondo con la propria unicità ma deve mostrare l’umanità».

La Sicilia le manca?

«No, perché me la porto dentro».

Qual è il significato del “Seme dell’altissimo”?

«È una scultura in marmo, di 7 metri, che ho creato in occasione di Expo. Il sindaco Giuseppe Sala, allora commissario di Expo, la volle all’ingresso del sito espositivo, grazie all’interessamento dell’assessore alla Cultura Filippo Del Corno. Ora resterà alla Triennale, l’ho donata alla città. È un simbolo di rinascita e di speranza. L’auspicio è che Milano cresca sempre di più e sia modello per il resto del mondo facendo un’evoluzione: da capitale dello stilismo a capitale dello stile. In ogni ambito».

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