Stefano Bollani ospite nella redazione de il Giorno: "Volevo diventare Celentano" / FOTO

Il nuovo disco, il Brasile: il pianista si racconta nella nostra redazione

Stefano Bollani nella sede de Il Giorno

Stefano Bollani nella sede de Il Giorno

Milano, 12 giugno 2018 - «All'età di 5 anni volevo diventare Celentano, poi mi hanno messo davanti ad un pianoforte e…» raccontava ieri Stefano Bollani in redazione al Giorno, addentrandosi tra i come e i perché di “Que bom”, l’album che segna il debutto di Alobar, l’etichetta che ha voluto alla sua musica dopo vent’anni di palcoscenico e una quarantina d’incisioni.

Registrata a Rio, questa sua nuova fatica riprende il filo di “Carioca”, suo precedente “coup de foudre” per il Brasile.

«Effettivamente, dieci anni dopo, volevo ritrovare quel suono. Per questo al basso di Jorge Helder, alla batteria di Jurim Moreira e alle percussioni di Armando Marçal, ho voluto aggiungere pure i colori di un altro percussionista, Thiago de Serrinha, che suona spesso con Hamilton De Holanda. Insomma, volevo stare in mezzo alla mia famiglia, che è quella ritmica, dato che pure il pianoforte è uno strumento a percussione, con dei martelletti che picchiano sulle corde».

“È per te che ho rubato la nebbia a Napoli…” canta Caetano Veloso in un brano.

«Caetano finora l’avevo incontrato solo sul palco ed erano anni che sognavo di averlo pure in studio. Dovevamo fare tutt’altro, ma la sera prima che arrivasse in sala di registrazione mi sono lanciato a scrivere un testo in italiano su una melodia che gli avevo già fatto ascoltare. L’ha imparato in un attimo e poi mi ha suggerito di mettere nel disco pure un altro pezzo cantato da lui in italiano, quella “Michelangelo Antonioni” che aveva composto anni fa. Così è stato».

Ci sono pure altri campioni della musica brasiliana.

«João Bosco e Jaques Morelembaum, li conoscevo ma non ci avevo mai suonato assieme, così gli ho chiesto se volevano farlo in questo mio disco; anzi, a Bosco ho chiesto pure di cantare “Nação” che in Brasile è una specie di inno. Hamilton De Holanda, invece, l’avevo coinvolto già in parecchie avventure e m’è sembrato naturale averlo al fianco pure in questa».

“Que bom” arriva dieci anni dopo “Carioca” e undici dopo il suo concerto in una favela di Rio che rischiò di prendere una piega bruttissima.

«Nel 2007 Umbria Jazz e il governo brasiliano organizzarono una mia esibizione ai piedi di una favela di Rio in modo da provare a far incontrare due pubblici, quello dei disperati che vivono lì e quello della città. Esperimento interessante che affrontai puntando su alcuni samba popolarissimi, suonati in versione jazz in modo da catturare l’attenzione generale».

Un successo, a parte gli spari.

«Effettivamente, prima dell’inizio volò qualche pallottola. Un incidente causato dalla presenza della polizia, arrivata a fare il servizio d’ordine al nostro spettacolo. Nella favela non sono abituati alla presenza degli agenti e quando la gente del luogo se li ritrova davanti sa che ha la meglio chi spara per primo. Nella circostanza furono le mogli a correre incontro ai mariti per avvertirli che si trattava di un concerto. E la situazione si tranquillizzò».

La sua infatuazione per il Brasile era nata grazie all’album “Getz/Gilberto” e alle prime esperienze con Barbara Casini.

«Effettivamente i concerti con Barbara mi hanno aperto un mondo. Io, grazie a quel disco di Stan Getz e Joao Gilberto, mi ero innamorato della bossa nova, di musica popular brasileira e poi di grandi cantautori come Caetano, Gilberto Gil, Chico Buarque, Milton Nascimento. Anche se la prima volta che ho incontrato tutto il resto, vale a dire il choro, il samba, il forrò, è stato nel 2007 quando sono andato laggiù per la prima volta».

Il brano “Galàpagos” è ispirato al romanzo di Kurt Vonnegut?

«Sì, perché è un libro meraviglioso di quella fantascienza intelligente che guarda al futuro per parlare del presente. Nel caso di Vonnegut è il narratore a posizionarsi un milione di anni dopo di noi e a raccontare com’è che la specie s’è estinta. Secondo lo scrittore americano, che la sa lunga, fra un milione di anni ci chiameranno “quelli dai grossi cervelli” perché passiamo il tempo a crearci dei problemi lasciando che, nel frattempo, la terra rotoli via».

Lei è nato a Milano.

«L’unico momento della giornata in cui tiro veramente fuori il milanese che mi porto dentro è quando in auto, bloccato in mezzo al traffico, m’innervosisco. Evidentemente se uno vede rosso e torna bambino e zac, tornano fuori le radici».

Un libro, un film, un viaggio che consiglierebbe?

«A parte “Galàpagos”, direi “Profumo di Jitterbug” perché secondo me Tom Robbins è uno tra i più grandi scrittori viventi e il libro sa far ridere dall’inizio alla fine pur parlando di morte; per il film direi “Le mele di Adamo” di Anders Thomas Jensen. Il viaggio? Siviglia».

A proposito di film, lei avrebbe dovuto firmare la colonna sonora di “Caos calmo”, ma poi Nanni Moretti disse di no.

«Ho ancora il dvd di quel film con la mia colonna sonora. Un amico, mi disse: non te lo faranno mai fare. Aveva ragione, perché il mio commento musicale era un po’ troppo ambizioso. In una scena, ad esempio, Moretti stava seduto da solo su una panchina e io gli mettevo sotto un assolo di batteria in stile free jazz anni Settanta. Davvero troppo».

Ha fatto pure le sigle di Radio 3, dal GR ad “Onda verde”.

«Chi l’avrebbe mai detto? È stata un’esperienza divertente. Su alcune ho pure mollato il colpo, perché dovevano essere talmente brevi che non riuscivo a trovare qualcosa di sensato da comprimere in così poco tempo».

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