Alessio Boni al Menotti: "Volevo essere Bruce Springsteen"

L'attore sul palco con Omar Pedrini per 66/67

Alessio Boni

Alessio Boni

Milano, 29 settembre 2019 - neanche fossimo in spiaggia. Un falò acceso e qualcuno che tira fuori la chitarra. Tutti insieme a cantare, nell’attesa di baciarsi. Evviva la vita! D’accordo, forse il finale sarà diverso al Teatro Menotti. Ma l’atmosfera è un po’ quella con «66/67», dall’1 al 3 ottobre con protagonista una strana, fascinosa coppia: Alessio Boni e Omar Pedrini. Il titolo rivela i rispettivi anni di nascita. E l’inizio di un viaggio musicale in cui l’attore legge e racconta i brani che verranno poi eseguiti dal cantautore bresciano, insieme alla sua band (Larry Mancini, Carlo Poddighe, Stefano Malchiodi).

Boni, da ragazzino non avrebbe voluto diventare una rockstar? «Sì, d’altronde come fai a non sognarlo ascoltando Bruce Springsteen, Kurt Cobain, Bob Dylan? Ognuno poi ha i suoi miti. A tredici anni suonavo la chitarra e fantasticavo. Poi purtroppo ho dovuto cominciare presto a lavorare ma direi che è andata bene anche così. Mi ha fatto sorridere che Omar volesse invece fare l’attore». Ci racconti del progetto. «È un salotto, una terapia di gruppo dove si torna indietro negli anni e nei ricordi. Una situazione rilassata, al leggio, condividendo con gli spettatori storie, parole, musiche. Perché in realtà in pochi comprendono il significato di alcune canzoni. Anche quando conosci l’inglese mica è facile cogliere tutte le sfumature. E così ci è venuta l’idea di andare più a fondo di quella musica universale che ci accompagna ovunque, di qualsiasi genere sia: jazz, blues, punk, classica. A volte inizi ad ascoltare un brano e improvvisamente sei di nuovo con la tua fidanzatina di quarant’anni fa. E pazienza che ora stai con un’altra donna e hai dodici figli. La musica è così». Non si è ritagliato un momento per cantare? «Sono quasi tutti brani in inglese, a parte ovviamente Sole spento di Omar. Ma desideravo finire con un artista italiano che fosse riuscito a unire questa doppia anima del progetto, fra musica e teatro. È stato naturale allora pensare a Giorgio Gaber ed effettivamente sarò io in quel momento a cantare. Spero che il pubblico abbia pietà, stiamo solo giocando». Quanti sono i brani? «Una dozzina, scelti insieme in base anche alla tonalità. Diciamo che Omar mi ha chiesto esplicitamente di non fare Fredddy Mercury e come non capirlo. A pensarci bene il suo è un atto di umiltà, difficile che un cantautore come lui si presti a fare cover per il teatro. Ma c’era proprio il desiderio forte di condividere qualcosa di bello con la gente. Sono venute fuori dodici canzoni, come gli apostoli». La sua preferita? «Blowin’ in the wind di Bob Dylan. Un capolavoro in cui un ragazzo di 21 anni denuncia tutta la stupidità della guerra, dell’abuso di potere, del razzismo. E lo fa attraverso la poesia. È tutto lì. Come Greta oggi che smuove le masse e dice «Stiamo segando il ramo dove siamo seduti», immagine potentissima che ti domandi perché venga in mente a una ragazzina e non ai nostri politici». È da lì che partite? «Sì, per arrivare fino a Giorgio Gaber, morto nel 2003. In mezzo alcune cosucce come Redemption Song, Heroes, Wonderwall, There’s a light that never goes out». Prima di concludere deve rivelarci la canzone della ragazzina. «By this river di Brian Eno. Ma non dico altro». 

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