di Gennaro Malgieri

Milano, 2 agosto 2013 - Raccontare la storia di Raul Gardini vuol dire immettersi nelle convulsioni e nelle contraddizioni del capitalismo italiano del secondo dopoguerra. Ma anche ricordare l’avventura di un “capitano coraggioso” che ha immaginato di trasformare l’economia e la finanza italiane a propria immagine e somiglianza, sbattendo contro il muro dei “poteri forti” e di una classe politica che non poteva essere addomesticata altrimenti che blandendolo affinché accettasse il sistema di corruzione che essa aveva creato.

La parabola di Gardini, a venti anni dal suicidio, avvenuto a Milano il 23 luglio 1993, poche ore prima di essere arrestato, viene narrata con dovizia di particolari e in una cornice quanto mai intricata, da Alberto Mazzuca il quale da giornalista dedito all’osservazione dei processi economici guarda finalmente dentro le disgrazie di colui che prima del crollo veniva additato ad esempio del rinascente capitalismo ed emblema di un successo che aveva costruito sapendo profittare del suo inserimento in una grande famiglia, quella di Serafino Ferruzzi che in pochi anni, agli inizi dei Novanta, passò dalle stelle alla polvere e si coprì perfino di sangue.

Qualcuno allora disse che chi tocca la chimica in Italia fa sempre una brutta fine. Gardini volle farsi “imperatore” di un mondo che non era il suo e ne pagò le conseguenze certamente al di là dei suoi probabili errori di valutazione. Tre giorni prima della sua fine tragica, Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni e suo rivale nella vicenda Enimont, si tolse la vita a San Vittore. Due vittime di “Mani pulite”, dunque. Due vittime di un sistema che si stava autodistruggendo anche per responsabilità di un mondo politico incapace di governare i cambiamenti e di assecondare la modernizzazione nella sfera produttiva spesso ostaggio delle grande finanza.

Come si evince dal libro di Mazzuca, fu proprio il capitalismo finanziario a decretare la fine (non cruenta) di Gardini, oltre alle sue stesse sprovvedutezze naturalmente, che immaginava una politica industriale per l’Italia ambiziosa e competitiva, guardando oltre le piccolezze a cui il Paese era abituato: per farlo aveva bisogno di un colosso come Enimont e quando il sogno sembrò diventare realtà, la fine lo avvolse nelle sue spire.

Il Corsaro non poteva, per sua indole, sopportare la subalternità ad alcuno. E da Corsaro, Gardini visse e si diede la morte. Mazzuca non dà giudizi, si limita a esporre i fatti che, per quanto complessi, ci dicono che se vale la pena osare bisogna pure mettere in conto la sconfitta. Gardini ne era consapevole, ma per non inciampare nel disonore preferì farla finita.

ALBERTO MAZZUCA, Gardini il corsaro, Minerva edizioni.