di Anna Mangiarotti

Milano, 8 maggio 2013 - Con la regia dei milanesi impegnati “nutrire il pianeta”, Expo 2015 può rivelarsi un successo. Altrove non sarebbe così scontato. A rassicurare, provvede el sur Carlo vissuto due secoli fa, il più onesto cantastorie concittadino. Riletto da un professore della Statale, Mauro Novelli: Divora il tuo cuore, Milano. Carlo Porta e l’eredità ambrosiana (il Saggiatore). Le squisitezze dei vernacolari componimenti impastati dal poeta, senza superbia autocelebratosi “baloss e buseccon”, sono già state apprezzate da critici esigenti.

Ma solo in questo saggio si dà conto d’un tratto fondamentale dell’identità meneghina, oltre a schiettezza e operosità: attitudine storica è anche la “ghiottoneria”. Non ingordigia, prego. I milanesi “ne l’abbondanza e delicatezza dei cibi sono singolarissimi, e splendidissimi in tutti i loro conviti, e par loro di non saper vivere se non viveno e mangiano sempre in compagnia” informava già nel Cinquecento il narratore Matteo Bandello. Ma a chiarire che la capacità di “far tremare le trippe e lasagne” (come osserva Tassoni) è virtù, non vizio, se praticata dall’epulante popolo lombardo, provvede limpidamente Porta. E bene lo illustra Novelli nel capitolo sul carattere municipale, continuamente riassortito in una città instancabile nel cambiare, ovvero nel divorare il proprio cuore. A farlo, sono “omen de bon coeur”.

Che sentono il richiamo della tavola, perché sinceri e cortesi: “Solo sulle pareti d’una sala da pranzo – assicura a metà ‘800 Giovanni Rajberti – si potrebbero scrivere senza impostura le parole libertà, eguaglianza, fraternità”. Il più cortese è l’autore della prodezza poetica tanto ammirata da diventare l’emblema del buonumore: “Volti in candide indumenta / con lardosa maestà / sedean sopra una polenta / come i turchi sui sophà”, scrive Porta nel biglietto di ringraziamento per l’invio d’un cesto di tordi, di cui ha fatto buon uso. Facevano, queste sue lettere, le rime buttate giù alla brava, la gioia di Tommaso Grossi.

Piacevolissima pure la poesia occasionale del brindisi, compendio della joie de vivre locale: “El mangià e bev in santa libertaa / in mezz ai galantomen, ai amis, / in temp d’invern al cold, al fresch d’estaa, / diga chi voeur, l’è on gust cont i barbis”, un gusto coi fiocchi. Che i milanesi hanno sviluppato grazie all’eccezionale fertilità del suolo lombardo, operosamente coltivato. E perché la prosperità sia duratura, il cantastorie buseccone inserisce un preciso messaggio nel Brindes indirizzato all’imperatore Francesco I che entra a Milano in compagnia della moglie nel 1815: “Che Toccaj, che Alicant, che Sciampagn, / che pacciugh, che mes’ciozz forester! / Vin nostran, vin de noster campagn, / ma legittem, ma s’cett, ma sinzer, / per el stomegh d’on bon Milanes / ghe va robba del noster paes” (Ma che tocai, che alicante, che champagne, che paciughi, che intrugli forestieri! Vino nostrano, vino delle nostre campagne, ma legittimo, ma schietto, ma sincero; per lo stomaco d’un buon milanese ci vuole roba del nostro paese). Così Porta interpretava allora le aspettative della cittadinanza in materia di amministrazione, economia e giustizia, nell’auspicio di un regime largamente autonomista.