di Giulia Bonezzi

Milano, 29 aprile 2012 — «Vede, noi scultori siamo come i preti, ma senza paradiso. Il talento ce l’hanno in tanti, quel che conta è la tenacia. E mai aspettarsi troppo». Franco Zazzeri apre il suo studio di via Vallarsa, dentro c’è la sua storia da un toro di creta del ’57 ai modelli per le ultime «traslazioni». Costellata di personaggi come Paolo Crescini, architetto del Credito italiano che di Zazzeri ha, sparse tra le sue sedi, una ventina di opere; uno che «non accettava un caffè, ed era così anche Marco Valsecchi, il critico, che mi presentò Ada Zunino». Gente che «mi resterà nel cuore», come Luigi Sodi, presidente della Bmw Italia e «il mio gallerista», Giovanni Schubert, ucciso e gettato nel Naviglio due anni fa da un collaboratore, «sa quante volte ci ho preso il caffè?».

Settantatré anni, aretino, ceramista e poi marmista «ma mica per fare lo scultore. Il casino cominciò quando feci il ritratto al mio principale». Passa al metallo nel ’65, dopo aver perso un occhio per le conseguenze di una sassata presa da bambino, per dire della tenacia. È riuscito, con i funzionari dell’Arredo urbano, a ritrovare una sua scultura che era sparita nel cantiere della stazione Centrale del metrò: un mese fa il Comune l’ha messa in piazza Duca d’Aosta. «Quel che esprimo ha sempre a che fare col tempo. Almeno è quel che ci vedo io».

Mestiere difficile il suo.
«Vede i fotomontaggi alle pareti?»

Progetti non realizzati?
«Ci sono anche sculture che non si sa più dove siano, come la prima che mi comprò Linate, in travertino. Presero anche un pannello, e quando nell’85 ristrutturarono l’aeroporto mi domandarono di rifarlo più grande, 2 metri e 40 per 2 e 40. Altri tempi».

Perché?
«Ora l’hanno spostato al ristorante, così basso che neanche si vede. Il presidente della Sea dice che faranno di tutto per trovargli una collocazione degna, ma potrebbe finire a Malpensa...».

Lei è a Milano dal ’60.
«Già: 42 anni e non me ne sono quasi accorto. A Milano devo tutto. Mi sono diplomato alla scuola del Castello Sforzesco, vivevo in subaffitto al quinto piano senza ascensore. Lo studio era in cucina, i clienti dei ritratti facevano le scale... La svolta fu una mostra alla Darsena, nei primi anni ’70».

E addio ritratti.
«Uno degli ultimi fu quello di Nenni, me l’avevano commissionato i socialisti. Vennero a vederlo Tognoli e Craxi, che allora era segretario del partito: in cinquecento, aveva un golf rosso con la manica bucata. Disse: “Levagli la cravatta e va bene”».

Craxi è stato un mecenate.
«Mah, non ci fu mai un gran feeling. Mi promisero un lavoro importante, un monumento ai caduti per la libertà. Questo qui».

C’è scritto “della città di Ykjz”.
«(Ride) Perché non si fece mai...».

giulia.bonezzi@ilgiorno.net