Milano, 25 marzo 2012 - Non è andata ai funerali di Dalla: «Sì, mi avevano chiesto di partecipare, ma troppa gente, troppo caos, sinceramente ho trovato più intimo seguirli in tv». Domenica Regazzoni, orgogliosamente valsassinese doc, prima solo pittrice ora anche scultrice, artista di rara e felice maestria artigianale (altro suo motivo d’orgoglio) è autrice di opere che traducono la musica in plasticità concreta e visibile, siano grandi sculture, come il violino alto cinque metri eretto sulla piazza dell’università di Bucarest, siano le forme pure che insegue ultimamente oppure in ultimo piccoli acquerelli modernamente materici. Arte a tutto campo: come qualche anno fa, a Roma, con una mostra a quattro mani, Dalla & Regazzoni, al complesso del Vittoriano.

«Il pensiero è come l’oceano, non lo puoi bloccare...»: una tessitura di brandelli di garze e pennellate celesti, un fondo marino percorso da increspature di speranza. «Fratello dobbiamo volare nei cieli più limpidi...»: il latin lover di Riccione stilizzato in una sagoma bianca, annullata anche la dimessa faccia da Beethoven in pensione.

 

Domenica Regazzoni, lei l’ha conosciuto bene e frequentato a lungo: com’era Dalla, l’artista e l’uomo?
«Una bella persona. L’avevo conosciuto attraverso un domenicano, padre Venturelli, l’attuale priore di Santa Maria delle Grazie. Io avevo già lavorato con Mogol, lui mi disse: “Ora lavori con Dalla”. E mi mise in contatto con padre Casali, il confessore di Lucio. In Dalla scoprii una persona poliedrica, non facile ma di grande umanità. Quando venne nel mio studio, mi disse: “Puoi fare ciò che vuoi dei miei testi, my darling”. Lui non ha mai giudicato le mie opere, mentre...».

Mentre?
«Mentre Mogol sì. Dalla scavalcava la profondità con l’ironia. Mogol, invece, giudicava, sceglieva. Mi ripeteva che la bellezza corrisponde alla semplicità. Schietto. Magari per celare la timidezza».

Ha lavorato con il Mogol prima o dopo Battisti?
«Dopo. Anzi, mi disse subito: “Non deve entrarci Battisti”».

Lei sta per esporre a Shanghai venti sue opere dietro ad alcune repliche di Michelangelo ma è giunta alla scultura dopo anni di pittura. Perché?
«Per un’esigenza interiore. Per moltissimo tempo avevo dipinto volti, ritratti, nudi femminili. E mi dissi che era ora di una svolta, di fermarmi con il reale. E poi era morto mio padre...».

Il famoso Dante, liutaio di grande valore.
«Esatto. Anche lui valtellinese doc, di Cortenova: non aveva mai voluto lasciare quei posti, per poter creare i suoi strumenti nel silenzio, nella massima concentrazione. E le mie prime sculture le ho eseguite lavorando proprio sui legni lasciati da mio padre».

Violini «resuscitati», li ha definiti Gillo Dorfles.
«Sì, io li chiamo violini spaccati, o scomposti, o a spicchi. Frutto di un’arte artigianale».

Ma lei un violino lo sa suonare?
«No. La chitarra classica sì: cinque anni di studio. Il violino lo suona mio figlio Alessio. Anche mio fratello Cesare è musicista, pianista e compositore. Anzi, anche lui ha lavorato con Dalla. “Baggio Baggio” l’hanno composta insieme. Io, invece, lo confesso, cantavo. Mi chiamavo Vivy. E credo di aver perso allora una grande occasione».

Nello show-business musicale?
«Proprio. Mi proposero d’incidere un disco di sigle per bambini. Dissi no. Lo incise Cristina D’Avena. Ma le posso dire un’ultima cosa?

Un’altra confessione?
«Non me ne può importare di meno».

di Gian Marco Walch