Zio Melchiorre e la magia del Natale

Andrea

Maietti

Zio Melchiorre non era un baciapile, ma aveva caro il Natale. Lavorava ai tavoli del casinò di Sanremo. Aveva sposato Erminia, una bella costeverdina. Avevano una bambina altrettanto bella e vivace. Aveva appena trent’anni lo zio, quando fu artigliato dal morbo di Burger: le arterie degli arti che si occludono. Non sentì più nulla quando cominciò a far effetto l’anestesia e il chirurgo mise la mano al seghetto per l’amputazione. Sognò di entrare in un grande salone a cassettoni d’oro. In coda a una fila di gente che andava verso una porta solenne. Quando ci arrivò lui, un vegliardo dalla voce grave lo guardò fisso: "Torna indietro – gli disse - non è questo il momento per te". E zio Melchiorre aprì gli occhi sulla suora della corsia: "Birbante, che spavento ci hai fatto prendere!" Me ne parlò una sera, lo zio, dopo che eravamo tornati dal Poggio, la vigilia della Milano- Sanremo. Mi aveva portato con la sua minuscola Diane a cambio automatico a vedere i tornanti da cui si sarebbero tuffati il giorno dopo “a tomba aperta” (come scriveva Mario Fossati) ciclisti ammaliati dal traguardo della “classicissima”. La Diane scodava paurosamente quando lo zio toccava il freno: lambiva il muricciolo alto una spanna che dava sullo strapiombo. Io lo guardavo e lui sorrideva della mia fifa. Si era costruito una carrozzina a motore per raggiungere piazza Colombo, dove vendeva cartoline e souvenir. Nel giardinetto della sua casa di legno in riva al mare, curava l’orto, trascinandosi sui moncherini da una prosa all’altra, accarezzando un pomodoro come fosse il regalo di un dio. E preparava l’insalata per la tartaruga Tobia, che doveva essere vecchia come il mare che gli lambiva la casa. A Natale sceglieva per lei l’insalata più tenera.

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