Violenza sulle donne, il calvario di Bea: "Per salvarmi mi sono buttata dalla finestra"

Il racconto di Beatrice Fraschini nell’incontro di Pantigliate: per 4 giorni pestata a sangue. I vicini non hanno chiamato il 112

Beatrice Franschini e Maria Teresa d’Abdon, madre di Monica Ravizza

Beatrice Franschini e Maria Teresa d’Abdon, madre di Monica Ravizza

Pantigliate (Milano) -  Una sedia bianca su cui è appoggiata una rosa rossa, a simboleggiare la presenza di Monica Ravizza, uccisa a 29 anni dal fidanzato. A ricordare l’inarrestabile fiume di sangue versato dalle donne hanno pensato Maria Teresa d’Abdon, mamma di Monica, e Beatrice Fraschini, sopravvissuta perché ha avuto la forza di gettarsi dal secondo piano per sfuggire al fidanzato-aguzzino. L’occasione è stata la presentazione a Pantigliate del libro di Roberto Ottonelli nell’ambito delle iniziative legate alla Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Il libro “Credi davvero (che sia sincero)”, i cui proventi andranno all’associazione “Difesa Donne: noi ci siamo”, racconta la storia di Monica e del suo calvario, fino alla tragica conclusione.

Con un coraggio e una forza sovrumani Maria Teresa e Beatrice hanno raccontato le loro vicende piagate da una sofferenza che può essere solo ascoltata con rispetto e partecipazione. Giorno dopo giorno Monica si era resa conto di essere stata chiusa in trappola, aveva paura e voleva chiudere quel rapporto malato. L’ultimo confronto con il suo carnefice le è stato fatale: l’uomo l’ha uccisa a coltellate e ha poi dato fuoco al suo corpo. Era il 18 settembre 2003. "Quando io e mio marito abbiamo saputo che usciva del fumo dalla casa di Monica – ha raccontato la madre – siamo corsi da lei col cuore in gola. Poi abbiamo visto una barella e abbiamo tirato un sospiro di sollievo perché abbiamo pensato che nostra figlia fosse ancora viva. Invece su quella barella c’era il suo assassino. Non si può descrivere lo strazio che abbiamo provato".

Beatrice , oggi 28enne, ha incontrato il suo aguzzino in oratorio. Nonostante un passato difficile aveva creduto nel suo riscatto e se ne era innamorata. "Ho capito di essere finita nelle mani di un manipolatore – è il suo racconto – che poco alla volta mi ha fatta abituare a forme di aggressione e di prevaricazione sempre più spinte. Volevo lasciarlo. Lui era convinto che io lo tradissi. Eravamo a casa sua, voleva che confessassi e mi ha stretto il collo fino a farmi svenire. Quando mi sono risvegliata avevo il volto gonfio di botte. Mi ha spogliata, tenuta ferma in una vasca piena di acqua ghiacciata, picchiata senza sosta per quattro giorni sotto la continua minaccia di morte. I vicini hanno poi confessato di avere sentito le urla ma di non avere voluto essere coinvolti. I miei genitori erano corsi a cercarmi ma lui li ha cacciati in malo modo. Si sono rivolti alle forze dell’ordine che non hanno ritenuto di avere elementi sufficienti per procedere. Quando al quarto giorno la belva mi ha lasciata sola nella stanza, ho capito che era l’unica occasione per salvarmi, lanciandomi dalla finestra del secondo piano. Sono sopravvissuta, ho vinto io".

Testimonianze lucide che ghiacciano il cuore e arrivano dritte in pancia come pugni. Storie diverse ma in fondo tutte simili, di vittime che attendono una giustizia che, forse, non arriverà mai. Come è accaduto ad Adelina Sejdini, albanese, che aveva avuto il coraggio di fare arrestare i suoi aguzzini che l’avevano costretta a prostituirsi, da anni in attesa di ricevere la cittadinanza italiana mai arrivata. Ha terminato la sua vita a 47 anni lanciandosi da un ponte sul Tevere. "Sto combattendo per farle avere la cittadinanza postuma – ha spiegato Maria Teresa d’Abdon – perché sia un simbolo di speranza per tutte le altre vittime".

Il Centro antiviolenza per il territorio del Sud Est Milano è a San Donato ed è gestito dalla Fondazione Padri Somaschi, per contattarlo basta telefonare al numero 0236527239. "Non voltate mai le spalle", è il monito della loro referente Chiara Sainaghi. "Le donne che subiscono violenza si sentono fragili, fanno fatica a confidarsi persino con le persone più care perché si sentono giudicate. Sta a noi cogliere i segnali e denunciare. Noi ci siamo".