La ricca vedova legata e uccisa: un giallo da risolvere e la pista che porta in Ucraina

La 55enne trovata morta, incaprettata, in casa a Porta Venezia. E l’interrogatorio a Lviv saltato per le bombe

Il luogo del delitto e Nicoletta Figini

Il luogo del delitto e Nicoletta Figini

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Milano - "Il giorno 19 luglio del 2013 verso le ore 9, nell’appartamento in Milano, via Bernardo Ramazzini 4, è stato rinvenuto, dalla donna di servizio, il cadavere di una donna che risponde al nome di Nicoletta Figini". Comincia così, nei verbali contenuti nei faldoni della procura, la storia di un omicidio complesso sul quale gli investigatori non hanno mai smesso di indagare. Con un’ultima pista che porta a Leopoli, per la precisione, città oggi devastata dalla guerra scoppiata per l’invasione russa. E un’altra che porta, invece, a un uomo romeno, residente a Cernusco sul Naviglio, a cui però non è mai stato possibile prelevare coattivamente il Dna. "Una morte, quella della ricca vedova, avvenuta dopo lunghe sofferenze per asfissia" tra mezzanotte e le quattro di mattina di quel 19 luglio, dirà l’autopsia. E ancora, si legge: "È stata selvaggiamente picchiata e si è strenuamente difesa".

Nicoletta Figini, che aveva collo, mani e piedi legati, riesce a liberarsi parzialmente una narice solo quando i suoi assassini (si ipotizzò la presenza di due uomini) se ne erano già andati. Ma non le basterà per sopravvivere, una specie di illusione, che prolungherà solo un decesso inevitabile. Ottanta profili di dna sospetti, tracce lasciate sulle borchie incastonate nella cintura usata dalla vittima per pratiche sadomaso che le legava il collo agli arti superiori e inferiori in un incaprettamento punitivo e altri sulle lenzuola attorcigliate che le impedivano di respirare. Le indagini per ricostruire i fatti e risalire ai responsabili sono apparse da subito complicate. La donna dopo la morte del marito viveva sola, non aveva parenti, né legami affettivi stabili, frequentava un centro per disintossicarsi dall’alcol e dalla droga di cui aveva ricominciato ad abusare dopo la fine della relazione con il socio negli sfortunati affari di un piccolo negozio di telefonia. Lei, a spese sue, gli aveva avviato l’attività commerciale; lui, invece, aveva iniziato a tradirla con una ragazza molto più giovane. Minorenne, 14 anni, e per questo l’uomo, cinquantenne, finirà in carcere pochi mesi dopo la morte della vedova Figini.

Gli investigatori, mettendo insieme il puzzle di questa vita sfilacciata, si convinsero che la pista buona era quella che portava a Leopoli: una rapina finita in tragedia messa a segno da persone dell’Est che conoscevano molto bene l’appartamento, sapevano come muoversi, cosa rubare e conoscevano bene le abitudini della padrona di casa. Nicoletta era una donna ricca, appartamento di lusso a Porta Venezia, gioielli importanti e quadri di valore, governante che puliva e cucinava per lei, parrucchiere ed estetista a domicilio due volte a settimana, come racconterà la sua colf ucraina. Secondo la ricostruzione degli investigatori la notte del 19 luglio, a mezzanotte, i suoi assassini la sorprendono a letto. La picchiano una prima volta in camera, lei cerca di difendersi e perde un’unghia, ritrovata sul letto.

La pestano anche mentre la trascinano in soggiorno (dove morirà), forse perché continua a resistere o forse perché non vuole decidersi a dire dove tiene i soldi. Sul corpo di Nicoletta rimangono le tracce biologiche di tre uomini. Una corrisponde a una persona che aveva rapporti sessuali occasionali con lei, ma che viene esclusa da subito perché ha un alibi di ferro. Gli altri due profili sono riconducibili a individui caucasici classificati come nativi dell’Est Europa. Anche l’analisi del traffico telefonico delle celle nella zona del crimine, in orario prossimo e compatibile con quello dell’omicidio, individua utenze intestate a soggetti provenienti dall’Est Europa con precedenti di polizia e precedenti penali.

Gli investigatori ipotizzano un legame tra l’omicidio e un ruolo della colf ucraina, unica presenza fissa in casa, che poteva aver fatto da tramite. Pochi giorni prima della morte della vedova Figini era tornata a Lviv, quasi a volersi costruire un alibi.

La colf si era sempre rifiutata di tornare a Milano, nonostante le convocazioni e le rogatorie della procura. Così gli investigatori della Mobile andarono a Leopoli per interrogarla. Date sfortunatissime, quelle della trasferta: tra il 18 e il 23 febbraio del 2014, quando arrivò la polizia italiana, ci fu il colpo di Stato in Ucraina, l’"Euromaidan". Una bomba colpì anche il commissariato in cui avrebbe dovuto essere sentita la colf e così, nel caos generale della rivoluzione in corso, dalle sommarie informazioni non fu acquisito nessun elemento significativo ai fini investigativi. E con lo scoppiare delle rivolte nei giorni successivi non se ne fece più nulla.

Restava la pista dell’uomo romeno, un operaio 27enne, con piccolo precedenti, residente a Cernusco. Il giovane si rifiutò di sottoporsi al prelievo del dna. Fu chiesto al tribunale di Milano l’autorizzazione al prelievo coattivo, gli investigatori ritenevano tale procedura applicabile anche a soggetti che non erano stati indagati. Non la pensava così, invece, il giudice che negò ogni autorizzazione proprio perché il giovane romeno non compariva tra gli iscritti nel registro degli indagati. E in assenza di elementi nuovi a suo carico non fu possibile indagarlo. Altra sfortunatissima circostanza. A nove anni di distanza la tragica storia della ricca vedova Figini di resta senza un colpevole, in attesa, stavolta, di quel colpo di fortuna che riapra le indagini.

 

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