Delitto di San Siro, ucciso perché era un confidente

Così morì Glenn Villamar. "Mangiavano pizza mentre lui si dimenava"

Il 36enne filippino Glenn Padilla Villamar

Il 36enne filippino Glenn Padilla Villamar

Milano, 24 novembre 2018 - Lo ammazzarono e diedero fuoco al suo cadavere perché era un confidente delle forze dell’ordine. Lo incaprettarono e lo lasciarono sul pavimento per una notte intera mentre loro mangiavano pizza e fumavano shaboo. È la sentenza della Cassazione, appena pubblicata, a svelare i dettagli inediti su movente e modalità di esecuzione dell’omicidio di Glenn Padilla Villamar, il filippino di 36 anni ucciso il 24 gennaio 2015 in un appartamento di viale Mar Jonio a San Siro e ritrovato ormai irriconoscibile in un campo di Novate Milanese, al confine con Quarto Oggiaro.

Tre anni fa, a seguito dell’arresto dei cinque presunti assassini da parte dei carabinieri del Gruppo di Monza, si era detto che Villamar era stato strangolato dai pusher di shaboo che da lui si rifornivano perché aveva manifestato l’intenzione di trasferirsi a Biella con la fidanzata; uno spostamento che si sarebbe tradotto per gli spacciatori in un pesante danno economico (la perdita del grossista di fiducia), senza dimenticare un presunto debito da 800 euro mai onorato dal 36enne. Raccontano altro le motivazioni del verdetto con cui la Suprema Corte hanno confermato le condanne per omicidio volontario aggravato dalle sevizie e dalla crudeltà di John Carlo Lardizabal (16 anni e 8 mesi di reclusione), Pascual Buidon (16 anni) e Chester De Mesa (14 anni e 8 mesi), che quella notte avrebbero agito in concorso con Luigi e Davide Ruvolo (padre e figlio giudicati separatamente). Stando a quanto scritto dai giudici, le indagini e i processi hanno accertato che la vittima aveva effettivamente collaborato con le forze dell’ordine «in un’indagine relativa al commercio di sostanze stupefacenti del tipo shaboo ed era stata punita per il tradimento». Non si sa come, i suoi complici l’hanno scoperto e hanno deciso di eliminarlo.

Ecco come andò quella sera. Villamar viene attirato con una scusa a casa dei Ruvolo e lì viene picchiato, a pugni e con una mazza da baseball (passata da Lardizabal a Ruvolo, nella versione del primo); sono presenti pure Buidon (che fa il «palo») e De Mesa (il presunto creditore). A un certo punto, Villamar cede e conferma «di aver informato le forze dell’ordine per farli arrestare». Parole che non gli salveranno la vita. Dopo circa un'ora, arriva Luigi Ruvolo, «anch’egli coinvolto nello spaccio», che afferra un cavo elettrico e, secondo le accuse, lega Villamar «a mo’ di incaprettamento», cioè annodando il filo a piedi e mani e poi facendolo passare attorno al collo. Il 36enne si dimena disperato, e saranno proprio quei movimenti a provocarne lo strangolamento. E gli assassini? Ruvolo senior se ne va, il figlio va a dormire. Gli altri tre mangiano una pizza e fumano shaboo, con il connazionale che sta morendo lentamente a pochi metri da loro. Un comportamento disumano, meritevole dell’aggravante della crudeltà. Il giorno dopo, il corpo di Villamar viene trasportato con un furgone al campo di Novate e lì dato alle fiamme. Il cadavere è irriconoscibile, e all’inizio si ipotizza che quell’omicidio rientri in logiche criminali del tutto differenti da quelle poi accertate (nella stessa zona era stato ucciso Emanuele Tatone nell’ottobre del 2013). Poi un tatuaggio stile tribale sulla mano, un chiodo ortopedico rinvenuto nel femore e l’impronta digitale rilevata sull’unico polpastrello sopravvissuto al rogo danno un nome alla vittima: è Glenn Padilla Villamar. A fine luglio gli arresti. E ora le condanne definitive per quel delitto brutale.

 

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