La tragedia di Melzo: autopsia sulla donna fatta a pezzi dalla figlia

Esame sul corpo di Lucia Cipriano, l’84 enne melzese trovata morta nella vasca da bagno del suo appartamento

La Scientifica davanti al palazzo dove è avvenuta la tragedia

La Scientifica davanti al palazzo dove è avvenuta la tragedia

Melzo (Milano) - Uccisa e fatta a pezzi, si cercano risposte dall’autopsia. L’esame sul corpo di Lucia Cipriano, l’84 enne melzese trovata morta nella vasca da bagno del suo appartamento in via Boves a Melzo il 26 maggio, è fissato per questa mattina, con possibile prosecuzione o rinvio domani, all’Istituto di Medicina Legale di Milano. In carcere, accusata di averla uccisa, sezionata e poi tenuta nascosta in casa per un mese e mezzo, forse due, resta la figlia 48enne Rosa Fabbiano, fermata poche ore dopo. Non ha mai risposto alle domande degli inquirenti. Non un’autopsia ordinaria quella prevista sui resti di Lucia, morta presumibilmente alla fine di marzo, fatta a pezzi con una sega e rimasta per quasi due mesi “sigillata“ nella vasca da bagno di casa, trasformata in una bara. Si tratterà di un delicato esame necroscopico, a cura di esperti di tessuti e dna. Se difficile si profila risalire al momento del decesso, c’è la speranza di avere qualche elemento ulteriore di chiarezza su come si sia consumata la terribile fine della donna. Forse uccisa prima della deposizione nella vasca, più probabilmente morta per soffocamento, poi fatta a pezzi. Il fermo con l’ipotesi di omicidio, occultamento e vilipendio di cadavere era arrivato la stessa sera del 26 maggio.

Quella mattina Rosa Fabbiano aveva incontrato a casa della madre la sorella Loredana, giunta da Trento in auto per accertarsi delle condizioni della madre. Le due avevano scambiato qualche parola, poi erano uscite di casa. «Non ce la facevo più, ho combinato un disastro – aveva detto Rosa alla sorella, prima di cercare una disperata fuga nei campi, interrotta dall’arrivo dei carabinieri. Nel decreto di convalida del fermo firmato dal giudice Giulio Fanales una ricostruzione che inchioda la “figlia bionda“ della vittima. Che non solo avrebbe ucciso l’anziana madre, affetta da una grave demenza, ma per due mesi, avrebbe cercato di coprire il terribile segreto. Settimane e settimane di bugie alle sorelle, al marito, ai due figli, ai nipoti e ai conoscenti. Ai quali era stato detto che la madre ormai non più gestibile: «È stata ricoverata in una rsa» ripeteva. Rosa era l’unica ad avere le chiavi di casa della madre. Vi era tornata nei due mesi successivi al delitto, quando una vicina di casa aveva segnalato, oltre «all’odore di cane morto» per le scale, il fumo che filtrava dalla porta sbarrata di Lucia Cipriano. Erano i resti di un maldestro tentativo della donna arrestata di bruciare gli abiti della madre morta. Ai vicini fu detto che si era verificato un corto circuito alla lavatrice. All’origine del delitto «un’ assoluta incapacità – così nell’atto del gip – dimostrata dall’indagata nel sopportare il decadimento fisico e mentale altrui e, in particolare, di coloro che le sono affettivamente legati».  

 

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