Trionfi, cadute e battaglie Mihajlovic il milanese "Tutto San Siro lo amava"

Dalle punizioni diaboliche nell’Inter di Mancini al lancio di Donnarumma in rossonero. Carisma, leadership e passione per le nuove sfide. Le tifoserie rivali lo piangono insieme

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di Mattia Todisco

Il primo trionfo interista di Roberto Mancini lo aveva firmato lui. Come a dire: amico mio, ti faccio un regalo. Uno di quelli che mi vengono bene, impacchettato a dovere. Punizione mancina alle spalle di Curci, la classica parabola chirurgica che si spegne in rete, mentre il portiere si affanna in volo. È il gol che sancisce la vittoria della Coppa Italia. A Milano, Sinisa Mihajlovic era arrivato per portare un po’ di quello spirito da vincente che serviva a una squadra in cui le feste tricolori in piazza Duomo mancavano dal 1989. Primo anno del serbo, primo alloro. Non ancora in A, per quello ci sarà la stagione dopo (complice Calciopoli). Fin dai primi giorni meneghini, Sinisa fa Sinisa. "Come stiamo messi in difesa? Per fortuna siamo tanti figli di buona donna", un modo colorato per definire gli arcigni compagni di ventura come Materazzi, Cordoba. O sé stesso, che di anni già ne contava 35 anni e col passare delle stagioni aveva arretrato il raggio d’azione dal centrocampo in cui sventolava con una chioma riccioluta a Belgrado, fino alle porte della propria area, con quel ghigno del temerario che non teme chi arriva al fronte e quando alza la testa può centrare una piuma con un lancio a cinquanta metri di distanza. La città diventa casa. Dopo i due anni da calciatore rimane per affinare la conoscenza di un nuovo mestiere.

La leadership non gli manca, il piede non invecchia. Negli allenamenti tartassa ancora i portieri (lo farà a lungo) e ha quella voglia da perenne lottatore che sarà marchio di fabbrica della battaglia contro la leucemia. Da Milano va, a Milano torna. Col Diavolo, da primo allenatore. Errante in un ambiente in cui è poco ammesso lo sbaglio, confeziona una biennale esperienza nella Genova blucerchiata (di nuovo il ritorno, visto che c’era già stato da calciatore) che gli vale una chiamata del Milan nel 2015. Bando ai campanilismi: l’Inter resta una bella parentesi, ma l’occasione è ghiotta, a Milano si sta bene, il Milan è il Milan, Sinisa è Sinisa. Sente l’odore della sfida, la affronta sapendo di dover superare un drago di nome Juve, nel pieno dell’epopea conte-allegriana. Il carisma, l’aura del duro che ti passa la mentalità per osmosi, ne fanno un difficile bersaglio anche per gli interisti più sensibili al confronto cittadino.

Si prende i suoi fischi perché è l’allenatore del Milan, non perché si avverta la vestizione di rossonero come un tradimento. Vince 3-0 il derby di campionato. Arriva a una finale di Coppa Italia. Poi trova la Juve in A, crolla, prende un esonero quando c’è ancora un ultimo atto per poter alzare un trofeo. Ma lascia un fiore: Donnarumma. A 16 anni in mezzo ai leoni. Un futuro capo branco. E che ci vuole a vedere un Donnarumma? Per vederlo pronto sedicenne a San Siro ci vuole coraggio. Che ne avesse tanto si è visto ancora molti anni dopo. Finché al vecchio difensore non è scappato l’ultimo alito della vita.

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