Io, tatuatore a 70 anni odio l’esibizionismo: roba di cattivo gusto

Gian Maurizio Fercioni, nato e cresciuto a Brera: "Ancora oggi disegno a matita tre ore al giorno". E' stato il primo ad aprire uno studio di tattoo in città, nel 1974

Gian Maurizio Fercioni

Gian Maurizio Fercioni

Milano, 18 novembre 2017 - In 50 anni di carriera ha tatuato i rampolli della migliore aristocrazia italiana, come i figli di Amedeo Savoia duca d’Aosta, Bianca e Aimone. Ma anche legionari ed ex detenuti di San Vittore. E il pugile Rocky Mattioli, campione del mondo, il regista da Oscar Gabriele Salvatores. Nato in zona Brera nel 1946 e discendente da un’antica famiglia di origini pisane, Gian Maurizio Fercioni è stato il primo ad aprire uno studio di tattoo in città, nel 1974. In via Mercato 16 ha allestito anche un museo sul tema, con tavole e attrezzature da ogni parte del mondo. Ha scelto di chiamare l’attività “Queequeg”, come l’arpioniere polinesiano tatuato che compare in “Moby Dick”. Il libro che più l’ha segnato, ispirandogli l’idea della vita come avventura: «Mio padre aveva una barca attraccata a Viareggio. Il primo tatuaggio lo feci lì vicino: a bordo del Maristella, appartenuta a Hermann Göring, finita sequestrata dalla Finanza. Ero diventato amico del custode, Paolo Volpe, medaglia d’oro al valore militare, che mi disegnò una piccola àncora. Avevo solo 14 anni» racconta Fercioni, non senza un certo compiacimento. Primo capitolo di una biografia da romanzo. Dopo il liceo artistico e il diploma in scenografia all’Accademia di Brera, l’aveva scelto la Scala ma lui ha preferito collaborare coi teatri d’opera d’Europa per viaggiare, come i suoi cari eroi melvilliani. Leggenda vuole che abbia iniziato tatuando i soldati della Legione Straniera. «Tutto vero. Nel 1968 a Marsiglia, mentre mi occupavo delle produzioni teatrali all’Opéra, lavoravo anche al tattoo shop del mio primo maestro, Alain. La clientela era incredibile: varcavano la soglia legionari che avevano terminato la ferma, marinai e le prostitute del porto, con tutta l’ironia delle femmine provocatrici… Non tutto andò liscio. Durante quei tre anni mi sono beccato una coltellata alla gamba, dentro un bar».

Come mai?

«Italiani lì non ce n’erano. La mia presenza destava sospetto, forse anche lo stile del mio abbigliamento (impeccabile, ndr). Pensavano che fossi un mafioso. Era un grande fraintendimento che riuscii poi a chiarire. Mi sono trasferito ad Amburgo, dove ho incontrato un altro maestro tatuatore, Herbert Hoffmann. Nel ’74 ho aperto il primo studio a Milano».

Chi erano i clienti nei decenni precedenti?

«Gente di ogni classe sociale: esponenti della casata dei Savoia, dei Gaetani Lovatelli d’Aragona, dei Sangiorgio. Borghesi ed ex detenuti. Nessuno era affetto dall’esibizionismo dei “baluba” d’oggi. Per loro il tatuaggio era un fatto intimo, discreto».

Cosa ha reso «sciaguratamente» trendy il disegno indelebile sulla pelle?

«Internet, nel nuovo millennio. Ha fatto proliferare gli esponenti della categoria che oggi aprono studi ovunque. Un tempo se volevi imparare a fare un tatuaggio dovevi addentrarti nelle zone più malfamate delle città, altro che fare un sito web».

Qual è il vizio principale della scena contemporanea?

«Lo stilismo di quelli che si definiscono esperti in un solo genere. No bueno. I professionisti veri sono quelli che hanno girato il mondo e sanno disegnare qualunque cosa perché sono abili, in primis, ad usare una matita. Io ho sempre disegnato almeno tre ore al giorno, anche oggi, per il mio lavoro da scenografo al teatro Franco Parenti. Aveva ragione un amico di mio nonno, il pittore Memo Vagaggini, che mi disse da piccolo: “Il segreto per diventare bravi è disegnare, disegnare, disegnare”».

Si considera un artista?

«Lascio il giudizio ad altri. Preferisco, a ogni modo, la definizione di artigiano...».

Tatua ancora a 70 anni…

«E andrò avanti finché mi diverto».

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