Silvana Pardo: "La mia Susy, milanese uccisa a Treblinka"

La sorella dell’unica italiana nel lager nazista che sterminò 900mila ebrei in 16 mesi: "Che il suo ricordo non finisca con me"

Silvana Pardo, sorella di Susanna

Silvana Pardo, sorella di Susanna

Milano, 18 gennaio 2020 - «In riscontro alla vostra del 9 giugno mi pregio informarvi che, per quanto risulta a questo Ufficio, la signora Pardo e la sua figliola sono partite da Skopje nel marzo scorso per destinazione non conosciuta". Così scriveva, nella tarda primavera del 1943, Roberto Venturini, console italiano nella città allora jugoslava. Il diplomatico rispondeva con poche, laconiche parole alle accorate insistenze di Aimée Pardo, sorella maggiore della ventiquattrenne Susanna, di avere notizie della sua amatissima Susy.

All’epoca di quel carteggio frettoloso, il tragico destino di Susanna, del marito Davide Pardo (stesso cognome perché cugini) e della loro figlioletta Esperance, 18 mesi appena, si era già compiuto nei crematori nazisti di Treblinka. Susanna , si è saputo solo recentemente grazie all’incrollabile lavoro degli storici della Shoah Marcello Pezzetti e Sara Berger (e al ritrovamento di un ampio materiale documentario in faldoni giacenti presso l’Archivio storico diplomatico del Ministero degli Esteri), è l’unica italiana ad essere stata assassinata a Treblinka, uno dei tre campi di sterminio, insieme a Sobibor e Belzec, dell’Aktion Reinhardt, dove furono trucidati un milione e 600mila ebrei. Ma come mai Susanna Pardo, ragazza milanese di corso Vercelli, secondogenita di una nutrita schiera di sorelle, era finita prima in un campo di transito bulgaro e poi in quell’atroce fabbrica di morte della Polonia orientale? Perché proprio lei che, volitiva e determinata, aveva già un impiego da segretaria a due passi dal Duomo, era andata al macello nella primavera del 1943 in quel posto così lontano? In una foto, scattata proprio in quei giorni e spedita alla famiglia a Milano, sorride bella e inconsapevole. Ritratta già nel campo di transito, in attesa di essere stipata sul vagone che l’avrebbe portata direttamente nella camera a gas. "Me lo ricordo molto bene quel convoglio in arrivo dai Balcani – affermava Richard Glazar, un membro del sonderkommando di Treblinka, uno dei pochissimi sopravvissuti –: 24mila persone robuste e in perfetta salute, non c’era neppure un invalido, un malato. Noi li osservavamo dalle nostre baracche, già nudi. Si affaccendavano con i bagagli. Il mio compagno David Bratt disse: “dei Maccabei“. I Maccabei sono arrivati a Treblinka. Gente ben piantata, fisicamente forte. Per noi era sconvolgente poiché quegli uomini e quelle donne magnifici erano assolutamente ignari di ciò che li attendeva". "Ignara lei. E ignari anche noi, fino a pochissimi anni fa, di quanto realmente le fosse accaduto", racconta Silvana Pardo, la sua “sorellina”, oggi 92 anni e ricordi scolpiti nella memoria, che affiorano vividi e precisi. "Purtroppo Susanna era andata a Bitolj, in Macedonia – spiega –. E lì, visto che era ebrea, era stata rastrellata e portata in un campo di transito in Bulgaria. Nessuno di noi sapeva però che poco dopo sarebbe finita a Treblinka".

Signora Pardo, perché Susanna era andata in Macedonia? "Si era innamorata di un cugino che da Salonicco era venuto in Lombardia, a Bergamo, per studiare. Nel 1940 si erano sposati ed erano andati a vivere a Bitolj, dove lui aveva un’azienda tessile, malgrado i miei genitori fossero contrari, perché presagivano la catastrofe. L’anno dopo era nataEsperance, la loro bellissima bambina. Susanna era felice, scriveva e mandava foto. Poi tutto è precipitato. Anche per noi a Milano". Come vivevate? "Eravamo una grande famiglia ebraica. Mio padre Joseph, di origine greca, commerciante di stoffe in largo Buonarroti, era rimasto vedovo della prima moglie Rachele, che gli aveva dato quattro figlie: Aimée, Susanna, Clara ed Ester. Si era poi risposato con mia madre Gina Levi e aveva avuto con lei altre tre bambine: oltre a me, Renata e Luciana. Nel 1938, con le leggi razziali, a mio padre era stata requisitala ditta e si arrangiava come poteva. Noi bambine non andavamo più alla scuola pubblica e subivamo ogni sorta di restrizione. In ogni caso, bene o male, la vita a Milano continuava. Ma dal 1943 per noi i tempi furono di morte e cominciò la caccia agli ebrei". Cosa accadde? "Qualche tempo prima mio padre era stato arrestato perché ebreo, portato a San Vittore e successivamente trasferito in un campo di internamento a Ponte a Ema, vicino a Firenze. Mia madre, che era molto tenace e combattiva, riuscì non so con quali strategie a farlo tornare a Milano. Erano i primi di settembre e capimmo che non c’era tempo da perdere. Noi eravamo intanto sfollati a Desio, in Brianza. Il 26 settembre, con l’aiuto di alcune brave persone, ci trasferimmo a Lanzo d’Intelvi, con la volontà assolutadi andare in Svizzera e salvarci. Cominciava a far freddo e noi avevamo solo i vestiti che indossavamo. Mio padre aveva cucito nell’orsacchiotto della mia sorellina Luciana, che aveva cinque anni, i pochi soldi e gioielli che era riuscito a nascondere alle razzie fasciste. Con noi bambine, oltre al papà e alla mamma, c’era anche la nonna materna che aveva 93 anni". Quanto rimaneste a Lanzo d’Intelvi? "Davvero pochissime ore. La padrona di casa, che ci aveva affittato un paio di stanze su intercessione di un dipendente di mio padre, una volta scoperto che eravamo ebrei si mise a gridare che ci avrebbe denunciati tutti. Allora, con l’aiuto del signor Raul Cola che, malgrado fosse un fascista della prima ora di Lanzo, si dimostrò stranamente umano, e di un suo operaio, cominciammo una marcia tra i boschi per raggiungere il confine svizzero. Ci inerpicammo, compresa la nonna, per alcuni chilometri, affrontando anche un dislivello di circa duecento metri. Finalmente, in piena notte, avvistammo le guardie svizzere di confine". La salvezza... "Non ancora. In un primo tempo gli svizzeri accettarono solo papà, mamma e la bambina più piccola. Solo dopo estenuanti trattative entrammo tutti e dovemmo gridare al capoposto di frontiera: “Viva la Svizzera“. Fummo molto felici di ubbidire a quell’ordine". Intanto di Susanna non avevate avuto più notizie... "Sapevamo ciò che il console Venturini aveva scritto a mia sorella Aimée. Nei mesi precedenti alla sua deportazione e quando era già nel campo di transito in Bulgaria, Susanna ci aveva inviato qualche breve cartolina, dicendosi fiduciosa che presto sarebbero stati liberati. Mia sorella più grande e i miei genitori facevano pressioni al console, sperando che l’essere italiana di Susanna l’avrebbe messa al riparo. Purtroppo i fatti avrebbero loro dato torto". E voi? "Fummo spostati da un campo all’altro e io fui anche mandata in una famiglia di Zurigo come domestica. Avevo 15 anni e mi adattavo a tutto, pur di uscire da quell’incubo. Finalmente la guerra finì e nell’agosto del 1945 facemmo ritorno a Milano, con solo i quattro stracci che avevamo addosso. Non trovammo più né il nostro bell’appartamento di corso Vercelli, né il negozio di mio padre in largo Buonarroti. Erano stati occupati da famiglie fasciste subito dopo la nostra fuga. Andammo allora da uno zio, che era stato nascosto per due anni da una bravissima signora che si chiamava Olimpia Camera, che abitava in corso Magenta. Non c’era abbastanza posto per tutti, si stava strettissimi. Ma faticosamente ricominciammo a vivere". Silvana Pardo e le sue sorelle ripresero gli studi interrotti e con grandissima volontà conquistarono la maturità classica a pieni voti. Silvana si iscrisse all’università e diventò tecnico di laboratorio, in servizio per una vita alla Clinica del lavoro di via Pace. "I nostri pensieri andavano sempre a Susanna – conclude –. Non ci facevamo illusioni, avevamo capito che non sarebbe tornata mai più. Ci angosciava non sapere nulla dei suoi ultimi istanti di vita. Adesso che si sa come è andata, vorrei che il suo ricordo non finisse con me". © RIPRODUZIONE RISERVATA

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