Milano, strage a palazzo di giustizia: "Nessuno mi ha fermato"

Caso Giardiello, la guardia giurata paga anche grazie alle parole dell’assassino

L’omaggio alle vittime nell’aula della strage

L’omaggio alle vittime nell’aula della strage

Milano, 5 febbraio 2019 - «Io ho preso la borsa e me ne sono andato, a me nessuno mi ha fermato». L’immobiliarista fallito Claudio Giardiello, intercettato in carcere il 2 luglio 2015, descriveva ai fratelli che gli avevano fatto visita quella manciata di secondi che hanno segnato il suo destino e quello delle sue vittime. Nella borsa c’era la sua Beretta calibro 9, sfuggita ai controlli ai varchi d’accesso, con cui la mattina del 9 aprile 2015 ha fatto fuoco all’interno del Palazzo di giustizia di Milano, uccidendo l’avvocato Lorenzo Claris Appiani, il suo coimputato Giorgio Erba e il giudice Fernando Ciampi. Altre due persone rimasero ferite. Una strage compiuta approfittando anche delle falle nella sorveglianza, che i giudici della Corte d’Appello di Brescia elencano nelle motivazioni da poco depositate della sentenza con cui lo scorso 29 ottobre hanno condannato a tre anni di carcere per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose Roberto Piazza, il sorvegliante della società All System che quella mattina presidiava l’accesso di via San Barnaba, con il compito di controllare dal monitor collegato al tunnel radiogeno Fep il contenuto di borse, zaini e giacche di chi entrava in Tribunale.

Una sentenza che ha ribaltato l’assoluzione stabilita in primo grado per il vigilante, ultimo anello della catena, finora l’unico a pagare per le falle nella sicurezza. Ai problemi della gestione della sorveglianza agli accessi, secondo i giudici, si aggiungono le specifiche responsabilità di Piazza che nonostante le «tre macchie di particolare intensità» (riprese dalle telecamere), corrispondenti a pistola, caricatore e mazzo di chiavi, che per venti secondi risaltarono sullo schermo al passaggio sotto il tunnel della valigetta di Giardiello, non approfondì. Una sagoma non ben distinguibile ma, nonostante questo, sospetta: «Anche a voler ipotizzare una eventuale difficoltà di riconoscimento dell’arma l’oggetto sarebbe rimasto comunque sospetto in ragione delle sue dimensioni e del suo peso (...) e si doveva procedere a un controllo». Una ricostruzione contestata da Piazza, che si è definito un «capro espiatorio» e, assistito dall’avvocato Giacomo Modesti, presenterà ricorso in Cassazione.

La sentenza della Corte d’Appello di Brescia - competente in quanto tra le vittime c’è un magistrato milanese - sgombra il campo da ipotesi alternative, come quella dell’arma introdotta in Tribunale nei giorni precedenti, nascosta e recuperata la mattina del 9 aprile. Giardiello, secondo i giudici, entrò alle 8.48 con la pistola nella valigetta, confondendosi tra la folla e riuscendo a eludere i controlli senza neanche tentare di confondere i sorveglianti con altri oggetti metallici infilati nella borsa assieme all’arma, perché questo «presupporrebbe delle capacità dissimulatorie straordinarie, al limite della magia, che non sono certo comprovate». Si trattava della parte più delicata del piano per eliminare le persone che considerava responsabili del suo fallimento. Un azzardo che, per l’immobiliarista di Garbagnate Milanese che sta scontando una condanna all’ergastolo, andò a buon fine. Giardiello, come confessò ai fratelli, in una conversazione intercettata riportata dai giudici, aveva anche preparato un drammatico piano B, se fosse stato fermato ai varchi: «Mi sarei sparato. Se non ce l’avessi fatta avrei detto che sono dei balordi e delinquenti».

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