Strage di piazza Fontana, il ricordo: "Papà sul letto di morte perdonò i suoi assassini"

Nell'attentato Giuseppe Scaglia perse il padre Angelo: "Sarebbe ancora vivo se il mediatore che doveva vedere fosse stato puntuale"

Giuseppe Scaglia

Giuseppe Scaglia

Abbiategrasso (Milano), 16 dicembre 2019 - «Prima di morire ha perdonato i suoi carnefici. Vide l’inferno e disse che dovevano essere malati di mente per aver fatto un gesto del genere. E li perdonò. Io? Feci lo stesso qualche anno più tardi, ripensando alle parole pronunciate da mio padre nel letto d’ospedale… Ho solo un rammarico: il processo senza colpevoli".

Sono passati cinquant’anni dalla strage di Piazza Fontana. Una ferita mai completamente rimarginata nel cuore del Paese e di Giuseppe Scaglia. Il 12 dicembre 1969, quando una bomba esplose alla banca dell’Agricoltura uccidendo diciassette persone, in quella sala c’era anche suo padre, Angelo Scaglia, 61enne imprenditore agricolo di Abbiategrasso. L’esplosione lo sollevò in aria strappandogli una gamba e straziando l’altra. Sdraiato a terra tra la polvere e i corpi, Angelo guardò negli occhi l’inferno. Fu portato al Policlinico ancora cosciente, i medici alzarono il lenzuolo che lo copriva e scossero il capo: in quel momento Angelo capì. Morì la vigilia di Natale a causa delle ferite riportate. Aveva undici figli e per questo veniva chiamato “il patriarca della Bassa”, un elemento che gli permise di evitare l’invio al fronte durante la Seconda Guerra Mondiale. Eppure non rinunciò mai a compiere il suo dovere come istruttore militare a Milano, per trasmettere le proprie conoscenze ai giovani.

Giuseppe, che all’epoca aveva 14 anni, è il più giovane tra i figli di Angelo Scaglia e nonostante gli anni trascorsi il ricordo di quei giorni resta indelebile: "Ci avvisarono che era successo qualcosa e i miei fratelli maggiori andarono a Milano – racconta –. Io arrivai il giorno successivo, raggiunsi mio padre in ospedale e lui mi chiese perché non fossi andato a scuola. Era proprio una frase da lui. Si trovava in condizioni disperate, ma il suo fisico era fortissimo: morì diversi giorni dopo e nonostante i dolori atroci restò lucido quasi fino alla fine". "Ricordo la tristezza di quei giorni: papà era il fulcro della famiglia e dell’azienda. Ho dovuto svegliarmi da un brutto sogno e diventare uomo in fretta". Quel 12 dicembre Angelo si trovava alla Banca dell’agricoltura per un appuntamento: doveva discutere l’affitto di una cascina. Affare che avrebbe concluso con una stretta di mano, come sempre. Se il mediatore fosse arrivato puntuale alle 16 entrambi sarebbero stati già fuori dalla banca 45 minuti più tardi. Un ritardo fatale: "L’uomo che mio padre aspettava era a duecento metri dalla piazza quando la bomba esplose", spiega ancora Giuseppe.

A celebrare i funerali fu l’arcivescovo di Milano, Giovanni Colombo, ma dopo i giorni del dolore vennero quelli della delusione: "Lo Stato era confuso e non ci sostenne. Siamo stati lasciati al nostro destino e i successivi processi hanno confermato questa impressione". Oggi di Angelo Scaglia resta il ricordo. Il Comune di Abbiategrasso 10 anni fa gli ha dedicato una statua che lo raffigura con le maniche rimboccate, pronto a gettarsi nel lavoro, la sua passione. "È stato un padre modello, attento e premuroso – conclude Giuseppe, la voce rotta dall’emozione –. Ci raccomandava di comportarci bene, perché in questo modo avremmo sempre trovato un aiuto nella vita. Mi ha insegnato a credere in un futuro migliore, nonostante tutto".

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