Milano, sposa bambina: condannato il padre-padrone. Giudice: "Umiliata"

Ecco le motivazioni della sentenza

Una famiglia del Bangladesh

Una famiglia del Bangladesh

Milano, 21 giugno 2018 - Shaila non tornerà in Bangladesh per sposarsi a dieci anni come voleva suo padre. La sua mamma già aveva stracciato i passaporti e dopo mille umiliazioni denunciato il marito per maltrattamenti in famiglia: il 5 giugno scorso B.U., 45enne bengalese, è stato condannato in primo grado dal tribunale a tre anni e nove mesi anche per lesioni nei confronti della donna.

Ha ripetutamente "ingiuriato, umiliato, minacciato, percosso e, quindi, maltrattato la moglie e la figlia minorenne", ha scritto il giudice di Milano Anna Zamagni nelle motivazioni della sentenza. Inoltre, viene anche spiegato che la donna, la quale con la sua denuncia ha fatto scattare l'inchiesta, e la sua bambina, entrambe assistite dal legale Patrizio Nicolò, non erano "in grado di comprendere o parlare anche solo minimamente la lingua italiana per chiedere aiuto, dopo 8 mesi di permanenza in Italia". Elemento che "conferma lo stato di isolamento in cui venivano tenute" la donna e la piccola. 

Nelle motivazioni il giudice, in sostanza, ritiene pienamente attendibili i racconti delle tante vessazioni subite, messi a verbale dalla donna e dalla bambina, mentre giudica non veritiera la versione dell'imputato che ha sempre negato tutto, anche le nozze combinate. Non era affatto infondata, infatti, secondo il giudice, "la paura" della moglie "che il rientro in Bangladesh" nel 2017 "fosse finalizzato ad imporre alla figlia il matrimonio con il cugino". Infatti, prosegue il Tribunale, "pur a fronte di una previsione legislativa che fissa per le ragazze l'età matrimoniale ai diciotto anni" in Bangladesh - questa era la tesi proposta dalla difesa - è "peraltro dato notorio emergente dalle cronache che in quel paese vi sia un tasso di matrimoni infantili altissimo".

Agli atti anche la documentazione medica che certifica la prognosi di 40 giorni per una lesione alla mano della donna. Secondo l'accusa, riconosciuta dal giudice, sarebbe stato il marito a ferirla con un coltello. In più gli "insulti, le percosse, il divieto di mangiare o cucinare senza esplicito permesso" e quello "di uscire di casa", lei e la figlia (ora in una comunità protetta), se "non accompagnate". E anche il divieto per la bimba di "giocare o fare alcunché in casa, nonché la precisa volontà - scrive ancora il Tribunale - di non iscrivere la bambina a scuola". Il tutto, conclude il giudice, "in un sistema di vita improntato alla sopraffazione". 

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