Schiava del papà in Bangladesh, l'Italia non può salvare Jasmine

Milano, ragazza bengalese prigioniera del padre in patria che la vuole obbligare alle nozze. L’ambasciatore: "Non dateci responsabilità che non abbiamo"

I segni di violenza sul corpo della ragazza 22enne

I segni di violenza sul corpo della ragazza 22enne

Milano, 14 giugno 2018 -  «Tristissima la storia». L’ambasciatore d’Italia in Bangladesh Mario Palma esordisce così, via mail, commentando la storia di Jasmine (nome di fantasia), raccontata su queste pagine la settimana scorsa. È una ragazza di 23 anni che ha lanciato il suo appello sul nostro quotidiano chiedendo aiuto per tornare in Italia, dove ha vissuto per 11 anni. «I miei genitori mi hanno riportata in Bangladesh con l’inganno. Vengo maltrattata e sono destinata a sposare un uomo che non sceglierò io, con un matrimonio combinato». La sua è una battaglia per la libertà. «Hanno lasciato che scadesse il mio permesso di soggiorno, non so come tornare». 

Così ha scritto, sulla chat di messenger, e ha ribadito il suo messaggio in chiamate vocali. E dall’ambasciatore in persona abbiamo ricevuto una risposta. Poche, le speranze di aiuto istituzionale. E il diplomatico spiega perché: innanzitutto, oltre che «tristissima», la storia di Jasmine è «goccia in un oceano, di violenza domestica e contro le donne, cui purtroppo affaccia anche il nostro paese. Di casi come quello in questione ce ne sono in Bangladesh (come anche in Pakistan e altri paesi islamici con società molto conservatrici) migliaia, se non decine di migliaia. Ed è proprio perché Jasmine è cittadina del Bangladesh e vive qui che questa Ambasciata non può assolutamente intervenire (altro discorso sarebbe stato se la ragazza fosse stata anche cittadina italiana, nel qual caso avremmo avuto un obbligo di protezione concorrente con quello spettante allo Stato bengalese)». 

Mani legate, insomma, perché la ragazza non ha cittadinanza italiana. «La stessa Jasmine, nei contatti con questa Ambasciata, si è raccomandata il massimo riserbo ed è consapevole del fatto che persino un intervento di Amnesty International di sensibilizzazione della famiglia attraverso una Ong locale non avrebbe alcun esito». E anche se l’ambasciatore condivide «personalmente, da un punto di vita umanitario, la campagna a favore di Jasmine», invita nello stesso tempo «a sgomberare il campo da un grosso equivoco, ingenerato dal consiglio dato alla ragazza in Italia da chi non conosce l’abc del diritto internazionale di rivolgersi a questa Ambasciata addossandole una responsabilità che non ha e che non potrà mai avere».

«Come posso? Chi può aiutarmi?», si domanda Jasmine, che abbiamo sentito ieri, di nuovo. «Mi collego sempre col wi-fi, quando sono sola». Vorrebbe provare a ottenere un visto per tornare in Italia. In lacrime, dice di avere «molta paura, specialmente di mio padre. Io vorrei andare via da casa, vorrei tornare in Italia il prima possibile. Non posso più restare qui». 

Lo scorso marzo, come ci ha raccontato lei stessa, era stata aggredita dai genitori dopo aver chiesto di poter tornare. «Mio padre si è opposto, è convinto che io sia influenzata dalla cultura occidentale. Quando ero in Italia mi aveva impedito di andare a scuola, alle superiori. Io sono uno spirito libero e a lui questo non sta bene. Sono stata picchiata dai miei genitori proprio per questo motivo. Ho due sorelle più piccole e la mia famiglia crede che io rappresenti un cattivo esempio». Adesso ripete: «Non mi sento al sicuro. E soprattutto vorrei scegliere io, per me». 

Ha le idee chiare, Jasmine. «Mi sento più italiana che bengalese», ha sottolineato più volte, avendo vissuto 11 anni nel nostro Paese. «Sei anni fa mio padre mi rimandò in Bangladesh con l’inganno, dicendomi che mi avrebbe fatto ritornare. Avevo un biglietto di andata e ritorno ma, una volta in Bangladesh, mi è stato nascosto». Ora, il biglietto di ritorno, vuole conquistarlo da sola.

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro