Claudio
Negri
In una delle tante guerre perdute, era incappato in una masnada di predoni. Che in segno durevole di amicizia lo avevano evirato. Riuscì comunque a riportare a casa il resto del corpo. La voce era già corsa in paese, più veloce del dolore e della vergogna. La sua gente, guardandolo in faccia, non riusciva a non pensare a quella parte di lui rimasta chissà dove. Era vero? Era una bieca leggenda? Fa lo stesso: dal giorno del suo ritorno divenne per tutti Scarseggia. Sebbene lui andasse argomentando, soprattutto a se stesso, che con o senza gli attributi l’ordine dei suoi pensieri non fosse mutato. La guerra gli aveva lasciato in eredità un presente da profugo in patria. Si adattò a fare mille mestieri senza farne davvero uno. Fu anche guardiano in un pollaio, ma in realtà era il pollaio a prendersi cura di lui. Su una vecchia bicicletta, quando il mattino era ancora buio, trasportava all’occorrenza altrui pacchi e giornali. La sua vecchiaia avanzava, con le rughe, di un millimetro all’anno. Sembrava non avesse fretta. Avvizziva quietamente. Solo i suoi occhi, azzurri come quelli di un pescatore dell’Avana, erano rimasti allegri e indomiti. Si diceva che quegli occhi potessero addolcire l’uva Clinton o cambiare il tempo. Un giorno di primavera aveva guardato il cielo esclamando: “Sei ancora pieno di neve” e fioccò davvero. Scarseggia scarseggiava di tutto, ma non della volontà di adattarsi. Essere o non essere? Essere comunque. Di notte udiva i sospiri delle pantegane dei fossi, ma di giorno si sentiva trasportato nel vento e nel sole dal canto ascendente delle allodole. Così vivendo, aveva superato i novant’anni come il suonatore Jones dii Spoon River. Finché non s’era deciso ad andare avanti in bici, un po’ più in là dell’Adda: sul tumulo di terra della pietà municipale, ancora nudo di marmo, c’erano scritti il suo vero nome e il suo vero cognome, ma una mano ignota aveva aggiunto “Scarseggia” posandovi sopra un vispo fiore.
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