Russmagòt o il pettirosso nella nebbia

Andrea

Maietti

Dai tetti di via Callisto Piazza si è alzata la nebbia: non in un colpo solo, ma con

pigrizia, quasi volesse concedere il sole a poco a poco, rendere meno traumatico

l’impatto. Perché anche le cose buone bisogna prenderle cumpesìna, dosarle,

altrimenti feriscono come quelle cattive. Tra una tegola e l’altra, qua e là, spuntano

ciuffi di fiorellini biancastri, senza nome. I passeri qui, lontano dagli alberi, non

hanno trovato fessure per il nido.

Mi basterebbe un russmagòt, un pettirosso (vedi

com’è più fragrante il dialetto): gli occhietti arguti, il beccuccio lucido e puntuto, la

macchia rossastra sotto la gola, come una pennellata erratica di un artista eccentrico.

Il russmagòt che mi ha sorpreso in cortile l’ultimo giorno di un certo anno.

Zampettava in un angolo, cercando cibo tra un bolognino e l’altro. Zampettava senza

paura. Si fermò, mi guardò. Se lo avessi chiamato con la voce giusta, sarebbe volato

forse sulla mia mano. Mi stiro sulla sedia per la schiena che duole, china com’è da un

po’ sulla tastiera del computer. Torno con gli occhi alle tegole dei tetti di via Callisto.

Contro il vetro della finestra si è materializzato un gatto. Di quelli grigio-

leopardati. Si è accovacciato lì dove il sole ha sbrecciato la nebbia.

Solitario e nobile:

ma non indifferente come sanno essere i gatti. L’impressione è che non resti lì

soltanto per le coccole del sole. Anche i gatti hanno avuto forse altra vita. Magari

quella di un russmagòt.

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