Renzo Piano debutta in cattedra: "Non so insegnare, vi parlerò di me"

A 85 anni ritorno al Politecnico dove si laureò sei decenni fa: "Stare tra i giovani è l’unico modo per sopravvivere a se stessi". Con una certezza: "Costruire è il più bel mestiere del mondo "

«Ho studiato qui 60 anni fa, è un po’ casa mia. Adesso lo è ancora di più». Renzo Piano torna nel “suo“ Politecnico non solo firmando un nuovo progetto per il futuro “Campus Nord“, alla Bovisa. Nella cittadella di Architettura - che ha cambiato pelle, un anno e mezzo fa, sempre da una sua idea - ora c’è pure una buona fetta dell’immenso archivio della Fondazione Renzo Piano. Ha donato dossier, schizzi, fotografie, per renderli fruibili agli aspiranti architetti. C’è la sua storia, c’è il futuro. E Piano, che ama costruire ponti e continua a invitare ad abbattere muri, farà da “ponte“ a sua volta. Per la prima volta, a 85 anni, insegnerà. Le lezioni cominceranno a febbraio, per cinque anni. Porterà anche i suoi compagni di viaggio per raccontare agli studenti il suo percorso, per portarli nei cantieri con lui: «Perché il cantiere è un posto magico - racconta - ci sono nato, ci voglio morire». In Città Studi darà vita a un archivio-laboratorio. «Regalarvelo è per me bellissimo - confessa agli studenti -. Alla mia età di solito si sistemano le persone in una bella teca, ci si genuflette e si passa avanti». E invece ricorda l’idea nata tra i templi di Isé in Giappone, quando aveva sessant’anni: ogni vent’anni un tempio viene abbattuto e ricostruito. A 20 anni si impara, a 40 anni si costruisce, a 60 si insegna a fare il tempio. «Si fa scuola», sorride. La farà. «Perché lo sguardo interrogativo di un giovane è impagabile».

Milano - "Stare tra i giovani è l’unico sistema per sopravvivere a se stessi. Dovevo dirvelo. Dovevo confessarvelo". Renzo Piano è nell’aula magna del “Trifoglio“, il cuore del campus di Architettura rinato da una sua idea, circondato da mille studenti. È la sua prima lezione. La prima di una serie. E li porta tutti con lui i futuri architetti, in viaggio nel tempo e nello spazio per cercare di rispondere a una sola domanda, quella che gli ronza nella testa, ininterrottamente, da sessanta primavere su per giù.

"Ma perché? Me lo chiese mio padre quando gli dissi che volevo fare l’architetto. Stava fumando la pipa", racconta portando nel cantiere di papà, costruttore genovese che sognava il figlio ingegnere. "Ma a vent’anni la cosa più importante è andare via da casa", ricorda la svolta di un eterno inquieto, perché "ci sono due tipi di genovesi, come diceva Calvino, quelli attaccati allo scoglio come le patelle e quelli in giro per il mondo". Sorride alla scelta fatta, nonostante le patelle le adori per davvero. Racconta il primo approdo fiorentino per il biennio di Architettura, "di una bellezza paralizzante". La fuga a Milano, "meno bella ma vivace". E poi i giorni - e le notti - al Politecnico. "Si occupavano le università in una Milano più avanti di Parigi per discutere infinitamente su cosa fare per cambiare il mondo".

Quel mondo in cui Renzo Piano ha fatto atterrare "astronavi volanti", a partire dal Centre Pompidou. "Ce ne dissero di tutti i colori - ricorda -. Ma eravamo solidi io e Richard (Rogers, ndr), due ragazzacci maleducati. Un po’ bisognava esserlo per ’rompere il muro’. E così ecco un vascello sbagliare strada e arrivare nel centro di Parigi, che continua a funzionare, da 50 anni". Il viaggio nei sessant’anni intorno al mondo ha due punti cardinali: "Etica e poetica. O bellezza, osiamo dirlo, non frivolezza". E buoni compagni di avventura tra committenti, botanici, palombari. "Perché nulla si fa da soli. L’architettura è solidarietà". Mostra l’aeroporto di Osaka, aliante in mezzo al mare, "38 mesi di cantieri e 36 terremoti", con la "benedizione" impartita ai 10mila operai, su loro preciso ordine: "Ho lavorato, ho fatto un bel progetto. Voi andate su e non fatevi male". E non si fece male nessuno. "Gli incidenti si possono evitare", ricorda ai giovani, portandoli sul ponte che collega tre isole nel Pacifico, in curva, e poi a Berlino nel 1991, sul “The Shard“ di Londra e nel centro culturale Kanak, Nouméa, con dieci edifici che “suonano“ con gli alisei.

Ricorda gli operai al lavoro dopo il crollo del Ponte Morandi e il primo edificio voluto da Claudio Abbado dopo il sisma in Abruzzo. Porta a Mosca, nel progetto chiuso pochi mesi prima dello scoppio della guerra, in una vecchia centrale elettrica: "I ragazzi mi mandano i video e le foto ogni domenica - li mostra Piano -. In tremila occupano la struttura. Non succede niente, mi dicono, ma è un luogo di pace". In Uganda condivide la foto accanto a Gino Strada: "Mi chiese un ospedale scandalosamente bello. In queste due parole c’è tutto". Il viaggio termina sull’Isola che non c’è, con le sue cento e passa "creature" insieme. "Non per impressionarvi - dice ai ragazzi -, ma per dirvi che ora inizia la mia nuova avventura. Io non so insegnare. Ma ho tante storie vere e vissute da raccontare. Nel farlo dovrò confessare i miei errori. Alla mia età tanto cosa ci perdo? Ci saranno ammissioni, pentimenti, critiche. Quelle che funzionano di più sono le più irritanti. Ma facendo questo vi racconterò come nascono le idee". E il perché "costruire è il più bel mestiere del mondo, l’opposto del distruggere. I muri non fateli, i ponti dappertutto. Costruire, ragazzi, è un gesto di pace".

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