In Italia da 10 anni o niente Reddito di cittadinanza, decide la Consulta

Milano, i giudici d’Appello si rivolgono alla Corte Costituzionale sul caso di tre cittadine Ue. "Requisito discriminatorio e sproporzionato"

Modulo di richiesta del reddito di cittadinanza

Modulo di richiesta del reddito di cittadinanza

Milano - I criteri per l’assegnazione del reddito di cittadinanza diventano ancora una volta materia per la Corte Costituzionale. Stavolta a sollecitare la Consulta sono stati i giudici della sezione Lavoro della Corte d’Appello di Milano, chiamati a pronunciarsi da tre cittadine originarie di uno Stato Ue che non hanno potuto usufruire del sussidio perché residenti nel nostro Paese da meno di un decennio.

Ed è proprio questo il punto al centro del quesito: la parte in cui la legge numero 26, varata nel 2019 dal primo Governo Conte a trazione Movimento 5 Stelle-Lega, prescrive che il beneficiario debba essere "residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due continuativi", è in contrasto oppure no con gli articoli 3, 11 e 17 della Costituzione? Le donne, che hanno fatto causa all’Inps, hanno dichiarato di far parte di famiglie "in grave condizioni di fragilità, assistite da molti anni dalla Comunità di Sant’Egidio che le ha sostenute nella ricerca dell’alloggio e del lavoro e nell’accompagnamento scolastico dei minori, e di aver avuto, sia nel 2019 sia nel 2020, un indicatore Isee inferiore a 9.360 euro". Detto altrimenti: hanno dichiarato di essere in possesso di tutti i requisiti necessari per accedere al sussidio, se non quello dei 10 anni di residenza. Per il collegio presieduto da Giovanni Picciau, la questione di costituzionalità della norma "è rilevante e non manifestamente infondata".

I giudici, che in questo caso si sono concentrati solo su persone provenienti da Paesi dell’Unione europea, sono partiti da una premessa: "I beneficiari del diritto di soggiorno e di soggiorno permanente in Italia godono della parità di trattamento con i cittadini italiani anche nell’accesso alle prestazioni di assistenza sociale". Detto questo, la Corte ha precisato che la regola dei 10 anni non integra "una discriminazione direttamente basata sulla nazionalità perché la norma impugnata la estende anche ai cittadini italiani". Tuttavia, il requisito "opera una discriminazione “indiretta”, dato che sfavorisce i cittadini di altri Stati membri in misura maggiore rispetto ai cittadini italiani: per i primi, in gran parte nati e cresciuti al di fuori del territorio italiano, è oggettivamente più arduo soddisfare una condizione di questo tipo rispetto a chi, come i secondi, può più facilmente maturare i periodi di residenza utili". Il carattere discriminatorio, si spiega ancora nelle motivazioni, "emerge anche dal fatto che solo gli ultimi due anni devono essere continuativi: anche in questo caso, per i cittadini italiani è molto più facile dimostrare di aver “accumulato” i primi 8 anni di residenza nel territorio italiano, in periodi anche lontani tra loro e spesso sin dalla nascita, rispetto ai cittadini di altri Stati Ue che in buona parte si trasferiscono in Italia dopo un certo numero di anni trascorsi altrove".

Di più: per la Corte d’Appello, il criterio dei 10 anni è pure "sproporzionato perché privo di ragionevole correlabilità" con la condizione di bisogno di chi chiede aiuti economici. E per i giudici testimonianza ne sono i dati contrastanti di due report: mentre quello Istat del 2020 dice che la quota di persone a rischio povertà è più elevata tra i comunitari (24,2%) e gli extracomunitari (36%) rispetto agli italiani (18,9%), quello Inps sul reddito di cittadinanza dell’aprile 2022 informa che nell’88% dei casi il beneficiario è italiano (a fronte di percentuali che si fermano rispettivamente a 8 e 4 per extracomunitari e comunitari). Sottinteso: le statistiche fanno pensare, a parere del Collegio, che l’offerta di assistenza non intercetti in maniera adeguata la domanda. Conclusione: ammesso che il requisito dei 10 anni non sia incostituzionale (e sarà la Consulta a stabilirlo), per la Corte è comunque "sproporzionato e non ragionevole", tanto da proporre in subordine di abbassare la soglia almeno a 5 anni, se non addirittura a 2.

 

 

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