La battaglia di Rachele Vered: io, italiana. Ma Palazzo Chigi le nega la cittadinanza

I genitori polacchi finirono nei lager

Un'immagine simbolo

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Milano, 1 agosto 2018 - La battaglia di Rachele Vered va avanti da anni. E vincerla non significa solo aver diritto a un assegno, ma soprattutto essere riconosciuta come italiana figlia di ebrei perseguitati per motivi razziali. Nata a Milano il 20 settembre 1939 da genitori di origine polacca, la donna chiede allo Stato che le venga garantito il diritto alle provvidenze riservate agli internati dal regime nazifascista nei campi di concentramento e ai loro familiari. Il 20 febbraio 2013, però, la Commissione che esamina le domande, istituta presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, le ha negato questa possibilità. Il motivo? Per gli esaminatori, i genitori di Rachele non erano italiani, bensì polacchi. Una tesi avversata dai legali della 80enne, che hanno ricostruito una storia diversa.

In base ai certificati recuperati all’Anagrafe meneghina, Rochla Waisbort (così era stata chiamata Rachele appena venuta al mondo) è figlia di Zysia Waisbort e Chana Borkowska, che all’epoca dei fatti erano stabilmente residenti in Italia come «apolidi», cioè privi di cittadinanza. Sì, perché, sostiene Rachele, ai tempi vigeva una legge in Polonia che prevedeva all’articolo 1 «che ai cittadini polacchi soggiornanti all’estero venisse revocata la cittadinanza» qualora essi non fossero rientrati in Polonia «entro la data prestabilita su richiesta della rappresentanza estera della Repubblica Polacca». Una norma che diventa decisiva per la causa della Vered se messa in connessione con una vecchia norma italiana, la numero 555 del 13 giugno 1912: l’articolo 1 assegnava la cittadinanza italiana per nascita a «chi è nato nel Regno se entrambi i genitori sono ignoti o non hanno cittadinanza italiana, né quella di altro Stato, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori stranieri secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono». Per il Tar, che ha giudicato per primo sul ricorso di Rachele contro la bocciatura della Commissione, «questa norma è applicabile ai genitori della ricorrente». La premessa: «Circa un anno dopo la promulgazione della legge in questione (quella polacca del ’38, ndr), ovvero alla data del 20 settembre 1939, i genitori della ricorrente si trovavano con certezza a Milano, e la loro presenza, dopo tale data (ad esempio 25 luglio 1940, 14 luglio 1944, 5 settembre 1944), è stata accertata in alcuni campi di concentramento siti in Italia e destinati a cittadini di religione ebraica».

Conseguenza: «Questo comporta l’accertamento dello status di apolidi dei genitori della ricorrente al momento della nascita di quest’ultima». Conclusione: la donna ha ragione. Finita? No, perché Palazzo Chigi ha impugnato la decisione in Consiglio di Stato. E la guerra a colpi di carte bollate è ricominciata: i giudici di Palazzo Spada hanno chiesto all’Ambasciata italiana a Varsavia di acquisire «documentati chiarimenti sull’effettiva avvenuta perdita della cittadinanza polacca, alla data del 20 settembre 1939, da parte dei genitori della ricorrente». Da notare che tale accertamento era già stato chiesto, senza esito, dal Tar: la Polonia non ha mai risposto. Tutto da rifare. E Rachele aspetta.

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