Quando al Giorno c’erano mensa autisti e banca

Claudio

Negri

Ci fu un tempo in cui questo mio sempre caro giornale – che persisto a scarabocchiare da più di quarant’anni – aveva finanche uno sportello bancario al suo interno, con il cassiere, solo soletto dietro al plexiglass di un gabiotto stagno, forse pressurizzato in atmosfera aliena. Ci fu un tempo in cui avevamo in dotazione una bianca flotta di auto di servizio, guidate da fattorini-piloti che avevano preso la patente all’autoscuola dei caccia ricognitori di Guerre Stellari. Ci fu anche un tempo in cui lo stanzone della Cronaca di Milano era così lungo da essere diviso in tre fusi orari distinti. Ma ci fu soprattutto un tempo in cui c’era una mensa, di giorno come di sera, a ristoro del personale tipografico, amministrativo e giornalistico. Ai tempi paleocristiani di via Fava, la mensa era quasi prossima alle rotative e abbellita da zucche di pittoresche forme e colori. Da imberbe biondino precario, ci andavo spesso per sentirmi un po’ del Giorno, almeno nei moti peristaltici. Una volta il grande e compianto Tilius Van Denter (Attilio Pozzi) scoprì nella teoria di bottiglie di vago rosé, allineate sul bancone delle bevande una fiasca più rosa delle altre, un rosé addizionato. Mistero irrisolto. In Piazza Cavour la mensa era invece nell’attico del ciclopico ziqqurat del Palazzo dell’Informazione. Sento ancora la voce chioccia del caro Bellarte, centralinista cieco come Omero e illuminato da un’ironia venata qua e là di sarcasmo: lo vedo salire le scale a tastoni fiduciosi: “Buon appetito, Bellarte...”.”Grazie, non ci vedo più dalla fame”. Un inverno, causa lavori, si poteva accedere alla mensa solo tramite passerella nel vuoto gelido della sera milanese: ci intabarravamo da arpionieri di balene per andare a mangiare un piatto di riso e due fettine di bresaola. Fuori, nell’urlìo della buriana, si distingueva con chiarezza il passo cadenzato del capitano Achab. Mentre il cuoco circasso, uscito dalla cucina con occhi da folle, urlava ai commensali: “Non chiedetemi più formaggio. Basta, perdìo. Non ce n’è più, non ce n’è più, fine!”. E il povero Ben Gun, disperso in un qualche angolo sotterraneo del palazzo, era scoppiato a piangere.

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