Male di vivere all'estero, ci pensa la psicologa

Giulia Borriello, dopo una laurea alla Vita-Salute, si è trasferita a Berlino, dove non sempre emigrare corrisponde all'eden

Giulia Borriello

Giulia Borriello

Milano, 21 novembre 2018 - Esiste un male di vivere a Berlino? La città mitizzata da generazioni di giovani italiani non è per tutti la terra promessa che si può immaginare dagli inverni miti del Belpaese: gli affitti sono cari, la lingua non è troppo friendly da imparare, il sole saluta alle quattro del pomeriggio per otto mesi all’anno. E la sua natura di città-ponte verso un altrove non aiuta a consolidare relazioni. Per quei “non tutti” c’è Giulia Borriello: 35 anni, si è trasferita a Berlino con suo marito nel 2013, dopo la laurea specialistica in Psicologia all’università Vita-Salute (lode e menzione al merito accademico) e il tirocinio a Ville Turro, al dipartimento di Neuroscienze del San Raffaele, dove ha lavorato sui disturbi d’ansia. In Germania ha fondato, con altre psicoterapeute e psichiatre italiane, «Salutare e.V.», di cui oggi è vicepresidente.

La prima associazione per la salute mentale italiana in Germania. I disturbi sono causa o conseguenza dell’emigrazione?

«Per alcuni il bisogno di un supporto psicologico nasce dall’essere expat, altri erano seguiti in Italia e vogliono continuare».

E in lingua originale è più facile...

«Anche ricerche scientifiche mostrano come la terapia in lingua madre sia la più efficace. In generale la lingua è uno degli elementi che appena arrivati a Berlino possono rendere difficile orientarsi: non tutti parlano inglese, la prima lingua è il tedesco più che in altre capitali europee. Cinque anni fa c’era poco dal punto di vista della terapia: eravamo sette italiane per una comunità di circa 25 mila persone. Oggi gli italiani a Berlino sono 40 mila, e la nostra associazione ha messo in rete quasi cinquanta professionisti, non solo in città. Ma lavoriamo anche con l’ambasciata, le istituzioni tedesche e le assicurazioni sanitarie per aiutare gli italiani con tutti i problemi di salute in Germania».

Avete pubblicato una guida gratuita al sistema sanitario tedesco. È così difficile farsi curare in Germania?

«Più che altro il sistema è complicato, e noi italiani tendiamo a dar per scontato il nostro servizio sanitario nazionale, che dovremmo tenerci stretto. In Germania ci sono le assicurazioni, e una burocrazia complessa. Capire come funziona non è automatico, anzi, può incidere su persone predisposte all’ansia».

Lavora in un centro che segue persone di varie nazionalità in lingua madre.

«Sì, abbiamo anche differenti impostazioni terapeutiche. Ci confrontiamo, è un bell’ambiente e siamo giovani, relativamente perché a Berlino l’età media è bassa. In Italia, pur avendo molta esperienza clinica, non mi sarei lanciata in esperienze di leadership e insegnamento».

In Italia è impossibile?

«No, avrei potuto: la mia formazione al San Raffaele, che mi ha permesso di vedere pazienti sin dal 2001, mi ha dato grande confidenza. Ma qui sono entrata nella forma mentale per farlo».

Quali sono le cose che non c’immaginiamo dall’Italia?

«Non si può generalizzare, ma in base a quello che riscontro dai casi clinici, nei miei gruppi o nelle sessioni individuali c’è un’aspettativa di alta velocitò d’adattamento a fronte di ostacoli che io stessa, da expat, conosco bene: il clima, la lingua, un’attitudine culturale e mentale a volte molto distanti. Per chi arriva da un paese, anche la natura cosmopolita che è il bello di Berlino. C’è quest’aspettativa di trovar subito casa, lavoro, un nuovo amore: molti miei pazienti sono arrivati in coppia, la relazione è finita e devono ricostruirsi da soli in una realtà dispersiva, a Berlino si tende a non restare per sempre, molti cambiano città. Chi ha resilienza e motivazioni si crea una rete di supporto, molti riescono a star bene e avere anche successo. Ma se sei hai già problemi di ansia e depressione puoi crollare, e sono le persone che vengono da me. Poi magari hanno la loro rivincita su Berlino; altre volte mollano».

Tornare è vissuto come un fallimento?

«Dipende: se sono persone agganciate alla performance e al giudizio degli altri più che all’esperienza e l’amore di se stessi, è possibile. Ma la possibilità del ritorno uno se la deve dare, e questo dipende anche dalla situazione familiare e psicologica precedente: sapere di avere un abbraccio ad aspettarti è un elemento di libertà».

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