Tosca, la forza di una donna innamorata

Puccini e il “colpo di fulmine“ nel 1889 con l’opera recitata da Sarah Bernhardt. Ma lui non volle virago né inni socio-politico-culturali

I protagonisti di Tosca

I protagonisti di Tosca

Milano, 7 dicembre 2019 - Ormai sulla cresta dell’onda più alta dopo il trionfo di Bohème, Puccini ripesca un vecchio progetto: musicare il dramma Tosca di Victorien Sardou che, pur senza capire una parola di francese, aveva visto recitare a Milano sette anni prima – 1889 – da Sarah Bernhardt. Libretto affidato alla stessa coppia di Bohème (Luigi Illica, gran fabbricator di trame ma pessimo poeta; Giuseppe Giacosa, sua perfetta antitesi), ma che ebbe iter travagliato perché il drammone francese non piaceva per niente né a Giacosa né all’editore Giovanni Ricordi. Questi, anzi, sottopose l’abbozzo del libretto a Verdi. Che dichiarò “fortunato” un compositore alle prese con simile impianto teatrale, e in una memorabile serata volle recitare lui stesso la lunga tirata sull’Arte e la Storia che Illica aveva messo in bocca al fucilando Mario: che invece Puccini, tra lo scandalo generale - andare contro un parere di Verdi!! - volle ridurre a due versi senza peraltro entusiasmarsi troppo neppure per quelli (“l’è una ‘trionfalata, ovvìa” non si peritò di affermare a voce alta).

Cosa assai utile a comprendere quanto Puccini davvero volesse: niente virago à la Bernhardt né inni socio- politico-culturali, bensì una giovane donna innamorata che saturasse di sé tutta la vicenda. Languida e appassionata, entra in chiesa come sospinta dall’amoroso sospiro del flauto con un’inquietudine squisitamente femminile, nella propensione a giocare con la gelosia, che gli archi dilatano a ondate sempre più ampie e fragranti. I fiori portati dalla Tosca di Sardou erano solo una macchia di colore: quelli di Puccini stordiscono in una canora voluttà gemella del Domenichino i cui colori accendono le ombre di Sant’Andrea da dove potrebbe essere appena uscito Stendhal che nelle Passeggiate Romane confessa d’aver molto sostato “davanti a quelle belle teste”. Tutta la carnosa femminilità che, dopo la lunga quaresima ottocentesca delle “donne angelicate” (e dunque asessuate salvo che nelle frequenti scene di pazzia), dilaga nel melodramma a cavallo del Novecento, proviene da Aida e da Carmen: ma nella miriade di agganci e rimandi cui la musica di Puccini può essere sottoposta, mancherebbe pur sempre qualcosa.

Quella nota particolare di sensualità originata dal suo così tipico andamento melodico smozzicato, frammentario, tanto spesso ripiegato su se stesso ma sempre in elaborazioni musicali di complessità mai eguagliata dal contemporaneo Verismo. Un erotismo intriso di stordente veleno diventa l’elemento catalizzatore dell’opera grazie anche all’effetto moltiplicatore della figura Scarpia. Geniale quant’altre mai, al proposito, la scena in cui Tosca rientra in chiesa liberando la lancinante arcata melodica di “Ed io venivo a lui tutta dogliosa” (stupendo, e senz’altro di paternità giacosiana, quel dogliosa!) che tra fumo d’incensi e candele sui pesanti accordi delle campane, nello svilupparsi con logica infallibile nel successivo Te Deum, pianta nel cervello di Scarpia uno stordimento voluttuoso che è riflesso perfetto del decadentismo primonovecentesco: un’esaltazione del gusto liberty effettistico fin che si vuole, ma interamente risolto in musica.

Come lo è, al terz’atto, la genialissima simbiosi che la musica crea tra la luminosa sensualità barocca di Roma e l’animo della protagonista. Una portentosa vibrazione interiore che nell’alba trova un inquieto, conturbante ridestarsi soprattutto dei sensi: in un’epoca, al contrario, tutta “sublimità”, solcata dalle opposte lacerazioni del disfacimento wagneriano e dell’isteria che la straussiana Salome trasmetterà a una stirpe di sempre più stravolte eroine. Quell’attaccamento tenace alla componente fisica della vita, e quindi l’orrore per la vecchiaia, l’impotenza, la morte: è Puccini.

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