Piazza Fontana, Pinelli e quelle "spalle alla finestra"

49 anni fa la morte dell'anarchico: tra i misteri della strage pure un identikit mai divulgato dai carabinieri

I magistrati nel cortile della questura di Milano nel 1969

I magistrati nel cortile della questura di Milano nel 1969

Milano, 16 dicembre 2018 - Era una notte così, quando l’anarchico Giuseppe Pinelli volò giù da una finestra al quarto piano della Questura. Ma qualcuno dice «si era appoggiato di spalle». Era giusto la notte tra il 15 e il 16 dicembre - come quella appena trascorsa, ma di 49 anni fa - era tre giorni dopo la bomba esplosa nella banca di piazza Fontana con i suoi 17 morti e gli oltre 80 feriti.

Mentre il ferroviere 41enne, moglie e due figlie piccole, trascorreva le sue ultime ore ristretto nei corridoi di via Fatebenefratelli ben oltre i limiti ammessi dalla legge per un semplice sospettato, quegli stessi uffici erano pieni di uomini dei servizi segreti (la super-polizia parallela della “squadra 54”) mandati da Roma apposta per incastrare gli anarchici.

In base all’inchiesta ufficiale, Pinelli morì per un «malore attivo», un mancamento che lo fece finire oltre la finestra e giù nel cortile. Quella notte, invece, il questore Marcello Guida parlò di suicidio come atto di autoaccusa, e il capo dell’ufficio politico Antonino Allegra descrisse il tuffo di Pinelli oltre il balcone nonostante gli sforzi per trattenerlo dei poliziotti presenti in quella stanza.

Però da un verbale di una deposizione degli anni ’90 davanti al giudice Carlo Mastelloni riemerso tra i mille e finito nel libro di Enrico Maltini e Gabriele Fuga Pinelli, la finestra è ancora aperta, si scopre che Giuseppe Mango (nel dicembre ’69 all’Ufficio affari riservati con D’Amato per poi diventare un alto funzionario del Sisde) mette a verbale che in realtà Allegra - convocato a Roma da D’Amato ed entrambi da Angelo Vicari allora capo della polizia - disse che «Pinelli si era appoggiato di “spalle” alla finestra e che improvvisamente si era buttato giù». Del tuffo a pesce insomma - così come del malore attivo - sparita qualunque traccia.

E non è questo l’unico particolare quasi rimosso a proposito dei misteri di quei giorni fatali. Nelle stesse ore in cui la “squadra 54” preparava la caccia agli anarchici, i carabinieri avevano già un identikit del possibile autore della strage che avrebbe portato le indagini in tutt’altra direzione. «Un individuo biondo-ossigenato», una persona «che fu vista uscire velocemente dalla banca dell’Agricoltura». Identikit che però non venne mai pubblicato sui giornali, a differenza di quello fatto fare dalla polizia su descrizione del tassista Cornelio Rolandi e che sarebbe servito a creare il mostro (in realtà innocente) nel ballerino anarchico Pietro Valpreda.

Questo particolare, poco conosciuto e ripescato dall’avvocato Nicola Brigida, era agli atti dei processi per la strage di Brescia del ’74 e di quello (non ancora chiuso) per la bomba esplosa alla stazione di Bologna nell’agosto ’80. È contenuto in un appunto datato maggio 1973 della “squadra 54”, quella guidata direttamente dal vero capo dei servizi segreti di allora, il responsabile dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato, un personaggio che a tempo perso teneva (con uno pseudonimo) la rubrica di gastronomia sul settimanale L’Espresso. Nell’appunto si legge che la persona «biondo-ossigenata» dell’identikit uscita dalla banca «fu vista salire sull’Alfa Romeo guidata dal fascista Nestore Crocesi», noto esponente della destra estrema di allora.

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