'Ndrangheta, il blitz sul treno per arrestare il "Supremo"

Inchiesta anti ’ndrine: gli uomini del Gis hanno agganciato il boss Luigi Mancuso sul convoglio partito da Milano. L’arresto a Lamezia

Un fermo immagine tratto dal video dei ROS dei carabinieri

Un fermo immagine tratto dal video dei ROS dei carabinieri

Milano, 20 dicembre 2019 - La maxi operazione anti ’ndrangheta avrebbe dovuto andare in scena all’alba di oggi. I blitz simultanei erano già stati pianificati dai carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Vibo Valentia, sotto il coordinamento del procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri. Peccato che mercoledì pomeriggio gli investigatori si siano accorti che era in atto una fuga di notizie e che i capiclan erano già al corrente della raffica di arresti in arrivo. Così è arrivata la contromossa istantanea, seppur complicatissima da organizzare: "Capite cosa vuol dire, nell’arco di 24 ore, spostare tremila uomini – ha spiegato Gratteri –. È una cosa da folli, ma ieri sera (mercoledì, ndr), dopo una riunione drammatica, abbiamo sentito che i vertici della cosca sapevano".

L’obiettivo più importante , il sessantacinquenne di Limbadi Luigi Mancuso detto "Il Supremo", numero uno indiscusso dell’omonima ’ndrina, è stato localizzato qui in città, insieme ad altri due indagati: "Sapevamo che tornava da Milano – ha detto ancora Gratteri – e sapevamo che non l’avremmo più visto". Così sul treno sono saliti pure i militari del Gruppo intervento speciale (Gis), reparto d’élite dell’Arma, che hanno tenuto sotto sorveglianza Mancuso per l’intera durata del viaggio: "A Lamezia (in provincia di Catanzaro, ndr) non ha neanche capito cosa stesse succedendo, è stato preso e portato via in caserma". I parenti lo aspettavano alla stazione successiva, Rosarno: con ogni probabilità, l’uomo si stava preparando a una lunga latitanza. L’inchiesta-monstre (il lavoro della Procura è raccolto in 13.500 pagine trasportate con camion blindati da una località segreta) si è concentrata proprio sul clan guidato dal sessantacinquenne, che esercitava il suo potere nell’area del Vibonese, con propaggini anche in Piemonte e Lombardia (collegamenti più volte emersi nel recente passato) e legami consolidati con esponenti di Cosa Nostra.

Il tutto, secondo le accuse, anche grazie ai buoni uffici di insospettabili “colletti bianchi“ in grado di procurare informazioni e procacciare affari in ogni settore. A cominciare dall’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, che avrebbe sfruttato la sua appartenenza alla massoneria e i legami costruiti negli anni con politici e imprenditori per favorire esclusivamente gli interessi della cosca di Limbadi. Nei capi d’imputazione citati nelle 1.263 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Barbara Saccà, viene ricostruita così la figura di Mancuso, che ricopriva il ruolo di "Crimine" (capo locale, nel gergo mafioso) nella provincia di Vibo Valentia riconosciuto dal "Crimine di Polsi" (la struttura centrale di governo della criminalità organizzata calabrese): "Storico detentore del potere ’ndranghetistico formale e sostanziale su tutta la zona del Vibonese, in virtù del proprio carisma criminale, degli strettissimi rapporti criminali con le cosche Piromalli di Gioia Tauro e Pesce di Rosarno, dei collegamenti con le più potenti famiglie ’ndranghetistiche del Reggino, rappresentava il vertice assoluto dell’intera area, cui facevano capo le altre articolazioni criminali".

Un dominio pressoché assoluto, condiviso con il nipote Giuseppe Mancuso alias “Mbrogghjia“ ("a seconda dei momenti storici e dei periodi di detenzione da ciascuno sofferti") e "mantenuto anche successivamente alla scarcerazione avvenuta nel luglio 2012 e per tutto il periodo successivo". Un dominio spiegato così da uno dei suoi luogotenenti, Giovanni Giamborino: "Lui ha il tetto del mondo... se c’è qualcuno, è sempre lui il più alto di tutti, avete capito?".  

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