Militare ferito con forbici, dalla denuncia al raid: le 11 ore di follia di Fathe/ VIDEO

Il blitz in via Sammartini lunedì sera, poi i fendenti in Centrale. £Sento le voci, volevo il martirio"

Il luogo dell'aggressione

Il luogo dell'aggressione

Milano, 18 settembre 2019 - Ore 23.40 di lunedì, centro di prima accoglienza di via Sammartini. Parte da lì la chiamata alla centrale operativa di via Moscova: c’è una persona molesta, la segnalazione. Arrivati sul posto, i carabinieri del Radiomobile si ritrovano davanti un ragazzo vestito con jeans e maglietta a mani lunghe mimetica: in piedi sulla pensilina, inveisce contro il custode della struttura con una penna in mano. I militari provano a tranquillizzarlo, ma il giovane non vuole proprio saperne di scendere, tanto che sarà necessario l’utilizzo dello spray urticante per neutralizzarlo: visitato dal 118 e poi portato in caserma, viene denunciato a piede libero per resistenza e violenza a pubblico ufficiale. Si chiama Mahamad Fathe, ha 23 anni ed è originario dello Yemen, piccolo Stato funestato dalla guerra civile all’estrema periferia meridionale della Penisola araba. Qualche ora dopo, alle 10.45, lo ritroviamo in piazza Duca d’Aosta. Fathe punta alcuni soldati dell’Esercito impegnati nell’operazione «Strade sicure», piazzati come sempre sul lato dell’hotel Gallia. Il caporalmaggiore scelto Matteo Toia, 34 anni compiuti a luglio, sta salendo sulla camionetta quando viene aggredito alle spalle: Fathe, armato di forbici, gli assesta due fendenti, uno al collo e uno alla schiena, che per fortuna lasciano solo ferite superficiali.

Toia riesce a divincolarsi dalla presa. Lo yemenita si gira di scatto e inizia a correre, inseguito dai commilitoni del caporalmaggiore e dai carabinieri del Terzo Reggimento Lombardia, in servizio proprio lì di fianco per un’attività di controllo del territorio. A bloccare per primo il fuggitivo è un cinquantunenne senegalese che ha assistito a tutta la scena: l’uomo abbranca Fathe e lo butta a terra, consentendo così ai carabinieri di bloccarlo e ammanettarlo a poche decine di metri dal luogo dell’agguato. È in quel momento che il ventitreenne urla «Allah Akbar», come a voler dare un significato diverso e ben più preoccupante alla sua azione. I primi accertamenti fanno emergere più il profilo di uno squilibrato che quello di un aspirante terrorista, ma in serata, nel corso dell’interrogatorio davanti al capo del pool Antiterrorismo Alberto Nobili e agli investigatori di Ros e Nucleo informativo, Fathe confessa tutto e dice: «Sentivo le voci, volevo il martirio per raggiungere il Paradiso di Allah».

Il caporalmaggiore, rimasto sempre cosciente, viene caricato in ambulanza e trasportato al Fatebenefratelli: niente di grave, i medici lo dimettono con 12 giorni di prognosi. Fathe viene invece preso in consegna dai militari della Compagnia Duomo, che lo accompagnano alla vicina stazione Garibaldi e lo arrestano, d’intesa con il pm di turno Luca Gaglio. A fine giornata i reati contestati sono «attentato attentato per finalità terroristiche o eversione, tentato omicidio e violenza», giustificati sia dalla frase «Allah Akbar» che dalle parole rese durante l’interrogatorio.

La storia del giovane Mahamad è simile a quella di molti migranti che in questi anni hanno raggiunto l’Italia per sfuggire a fame e conflitti (quello yemenita nel suo caso). Arrivato nel 2017 in Sicilia, probabilmente a bordo di un barcone partito dalla Libia, Fathe presenta richiesta di protezione internazionale e viene assegnato a una struttura d’accoglienza in provincia di Bergamo. Senza attendere la decisione della commissione territoriale sulla sua istanza, il giovane se ne va in Germania, ma viene espulso e rimandato indietro, imbarcato su un volo atterrato a Malpensa il 13 luglio scorso. Riparte l’iter: il 23 agosto, Fathe presenta una nuova domanda a Mantova e viene ospitato all’Hotel California di Ostiglia. Da lì si allontana, probabilmente il 13 settembre, per venire a Milano. Quattro giorni dopo, l’assalto al militare e le manette.  

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