Milano, 23 settembre 2024 – Milano è una città per chi lavora? No. E per chi è, allora? E perché è diventata così? Da due anni un gruppo di ricercatori del Politecnico è impegnato a rispondere a queste domande. Si chiama Oca (Osservatorio sulla casa abbordabile, “affordable” si direbbe in inglese), nasce in partnership con due cooperative (il Consorzio Cooperative Lavoratori CCL e la coop Delta Economics) ed è uno dei pochissimi organismi di ricerca a farlo (un altro è l’Orsa, in Emilia Romagna). L’ultimo frutto del lavoro dell’Osservatorio è un libro intitolato appunto “Milano per chi?”, che è stato presentato al Festivaletteratura di Mantova dai suoi curatori, il professor Massimo Bricocoli, del dipartimento di Architettura e studi urbanistici, e il suo collega Marco Peverini. Il nostro Paese è poverissimo di informazioni sulla domanda di case e, anche se tutti parlano di social housing, nessuno (Governo, Regioni, Comuni) sembra interessato a raccogliere dati e affrontare il problema: così, la ricerca colma un vuoto, almeno sulla Milano urbana.
Il ruolo dei fondi d’investimento
Per la maggior parte degli osservatori, il fatto che l’edilizia “vada bene” coincide con l’andar bene della città. E a Milano, riconoscono Bricocoli e Peverini, va addirittura benissimo. Peccato che però non si metta in relazione la crescita di valore degli immobili e l’impennata degli affitti con un altro dato, quello dei redditi effettivi. La casa “abbordabile” è appunto quella che ci si può permettere e, come tutti sanno, è la più introvabile. Soprattutto da quando la casa è diventata un investimento, non solo quello classico del privato o dell’impresa immobiliare, ma di altri player economici, molto più potenti. Il mercato si è “finanziarizzato”, spiegano i ricercatori del Politecnico: i grandi fondi d’investimento internazionale (arabi, americani, della stessa Europa) devono mettere in portafoglio valori concreti da rivalutare. E cosa c’è di meglio di nuove costruzioni in centri attrattivi come il capoluogo lombardo? Non importa quanto costano a metro quadrato, né se vengono messi a reddito, affittati. Anche vuoti sono un asset, che ogni anno si valorizza. La conseguenza, però, è una forte distorsione dei prezzi, che fa sì che Milano e Parigi finiscano per costare uguale anche se i redditi nella capitale francese sono molto superiori.
Dall’Expo in poi
Le tabelle sono impietose: dal 2015, anno di Expo, al 2022 i valori immobiliari sono cresciuti in media di circa il 50%, i canoni di locazione del 34. E i redditi? Del 18%, con i salari fanalino di coda al 9-10%. Col suo stipendio di 1.200-1.300 euro netti al mese, un operaio in queste condizioni di mercato potrebbe affittare un locale di una ventina di metri quadrati, più o meno un posto auto. Il 60% dei milanesi, scrivono ancora Bricocoli e Peverini, guadagna meno di 26mila euro l’anno; la media in città sale a 34mila ma non basta, a meno che non arrivi in soccorso la famiglia d’origine. Ovviamente, sottolineano al Politecnico, il quadro è teorico perché alla fine ci si arrangia, ma Milano è sempre più divisa tra insider e outsider. Questi ultimi vengono ricacciati nei Comuni dell’hinterland, adattati a essere spesso un grande dormitorio. Né aiuta l’edilizia pubblica: nel 2022 sono state presentate 36mila domande di case popolari e ne sono state assegnate meno di 1.300; dal 2015 a Milano sono stati costruiti appena 195 nuovi alloggi pubblici e ne sono stati venduti 25mila riducendo il cospicuo patrimonio di edilizia non privata alle attuali 59mila abitazioni, -33% in pochi anni.
Il ruolo dei privati
Nel frattempo i privati hanno continuato a costruire, con oneri di urbanizzazione rimasti inchiodati ai valori del 2013 fino all’anno scorso. Un segno di scarso interesse al settore, dicono i ricercatori del Politecnico, e della scarsezza di informazioni. Un esempio: il taglio medio di una casa milanese è quello di inizio ‘900, per una famiglia con figli. Oggi però il 50% delle case in città è abitato da una sola persona e il 27% da due.