Storie di migranti, dopo il naufragio un posto di lavoro

Con le ultime stragi il ricordo torna alla mia esperienza. "Ho visto morire in mare il mio miglior amico e tanti altri"

Alpha Oumar Diallo

Alpha Oumar Diallo

Milano 22 gennaio 2019 - Per dieci volte Alpha Oumar Diallo ho intagliato il suo nome sulla corteccia di una albero. Una scritta per ogni città in cui ha fatto tappa, nel viaggio dalla speranza che dopo il naufragio nel Mediterraneo nel 2016 lo ha portato dalla Sicilia in Germania e infine ancora in Italia, a Milano. Un’odissea che si sta avviando verso un lieto finale, perché Alpha Oumar, 20 anni, originario della Guinea Conakry, ha trovato un impiego come magazziniere tirocinante in un centro commerciale grazie a un progetto della Comunità di Sant’Egidio, e presto potrebbe firmare la lettera di assunzione. «Voglio rimanere a Milano - spiega - e costruire in Italia il mio futuro. In Libia ho vissuto un inferno».

Parlando delle nuove stragi nel Mediterraneo il ricordo torna all’ottobre del 2016, quando partì dalle coste libiche su un barcone con a bordo decine di altri migranti. Un barcone che ha fatto naufragio in mezzo al mare. Il giovane ha visto morire il suo miglior amico e altri compagni di viaggio inghiottiti dalle onde. È stato salvato da una nave della ong Moas (Migrant Offshore Aid Station), una delle associazioni che all'epoca operavano nel Mediterraneo finite al centro dell’inchiesta aperta dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro su presunti contatti fra soccorritori e scafisti. "Nessuna contestazione al Moas è mai stata sollevata dall'autorità giudiziaria italiana - precisa l'associazione - ad agosto 2017 abbiamo sospeso le operazioni nel Mediterraneo centrale perché non volevamo fare parte di un sistema che non garantisse un posto sicuro alle persone salvate in mare".  

«Alcuni di noi non ce l’hanno fatto e sono morti in mare - spiega - altri si sono salvati. Siamo stati portati in Sicilia, il mio primo impatto con l’Italia». Prima del naufragio il giovane aveva già vissuto il dramma della prigionia in Libia, dove è rimasto per mesi in attesa di poter affrontare il viaggio sul barcone verso le coste italiane. «Siamo stati picchiati e torturati - racconta -. Un giorno mi trovavo con altri compagni in una piazza, dove ci raggruppavamo per cercare lavori occasionali, quando alcuni libici ci hanno sparato addosso. Un ragazzo che era vicino a me è stato colpito a un piede ed è caduto a terra. Mi è capitato in altre occasioni di vedere cadaveri a terra, sulla strada. Era un inferno, alcuni sono morti di freddo, perché in quel periodo le temperature erano molto rigide».

L’unica via d’uscita era tentare di raggiungere l’Europa, affrontando il mare a bordo di un vecchio barcone sovraffollato. Dopo lo sbarco in Sicilia e la prima tappa in un centro d’accoglienza, Alpha Oumar è riuscito a entrare in Germania, percorrendo la rotta verso il Nord Europa seguita da tanti suoi connazionali. Ha imparato il tedesco, ha trovato un lavoro ma nella primavera del 2018 è stato rispedito in Italia sulla base del trattato di Dublino: la richiesta d’asilo politico va presentata nel paese di primo approdo, nel suo caso l’Italia. Alpha Oumar ha ricominciato da zero, trovando rifugio in un centro d’accoglienza a Milano. La sua occasione è arrivata quando - grazie all’intermediazione della chiesa luterana tedesca - è entrato in contatto con la Comunità di Sant’Egidio, che organizza corsi di italiano rivolti a circa 400 stranieri nelle due sedi milanesi e in quella di Bresso e progetti per l’inserimento nel mondo del lavoro. La maggioranza dei partecipanti proviene dal Centro e Sud America, dallo Sri Lanka e dall’Est Europa, ma ci sono anche numerosi richiedenti asilo africani. Alpha Oumar Diallo è riuscito ad accedere a uno dei tirocini, ha iniziato a lavorare come magazziniere, integrandosi con i colleghi. Ha presentato richiesta di asilo in Italia, e attende che venga valutata dalla commissione. Il suo progetto di vita è appeso a un filo, perché in caso di esisto negativo dell’iter potrebbe piombare nella clandestinità. «Qui ho trovato una famiglia - racconta - non una famiglia del sangue, ma dell’amicizia». E ha inciso il proprio nome su un albero in un parco di Milano, con la speranza di aver trovato un approdo definitivo nel suo viaggio della speranza.

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